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(it) Umanità Nova n.27: I due Vietnam di Mr Bush
From
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Date
Tue, 9 Sep 2003 11:40:31 +0200 (CEST)
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Da "Umanità Nova" n. 27 del 7 settembre 2003
I due Vietnam di Mr Bush: La guerra infinita in Iraq ed
Afganistan
Chissà se Che Guevara avrebbe mai immaginato che il suo appello
agli antimperialisti e ai rivoluzionari per "Crear dos, tres,
muchos Vietnam", dopo circa quarant'anni, sarebbe stato
realizzato da un governo Usa infilatosi dentro due guerre
infinite in Afganistan e Iraq da cui è impossibile intravedere
una via d'uscita, mentre negli Stati Uniti sta calando
vertiginosamente il consenso verso dei conflitti che erano stati
motivati dalla propaganda governativa e dalla retorica
patriottica come "guerre preventive contro il terrorismo".
Infatti, sia gli obiettivi dichiarati ad uso e consumo
dell'opinione pubblica, quali l'eliminazione di Bin Laden e
Saddam Hussein o la distruzione delle armi di distruzione di
massa, che quelli effettivi dettati dai diversi interessi
strategici, appaiono tutt'altro che raggiunti e consolidati,
tanto che gli Usa e i loro alleati non controllano militarmente
né l'Afganistan e l'Iraq, non riescono ad insediarvi governi
affidabili e fedeli e non sono in grado di garantire la
necessaria pacificazione territoriale indispensabile affinché i
grandi gruppi economici capitalisti possano compiere i propri
investimenti per costruire oleodotti, sfruttare e gestire le
risorse petrolifere, aprire nuovi mercati, avviare una proficua
ricostruzione.
In Afganistan dopo diciotto mesi dalla caduta del regime
talebano, la realtà della "vittoria" americana sul terrorismo
sta mostrando tutti i suoi limiti: la situazione economica sta
precipitando e la guerra interna non si è mai interrotta, una
guerra che gli Usa, presenti con appena 7.000 militari, hanno
ormai rinunciato a combattere mentre le previste elezioni
democratiche per il giugno 2004 hanno il sapore della beffa.
È ormai di dominio pubblico il fatto che i comandi americani
hanno deciso di trattare con l'ex-nemico che, di fatto,
controlla vaste aree del paese a sud-est, al confine col
Pakistan, e pare che il Pentagono, rinsaldando la complicità di
un tempo, abbia offerto ai talebani una più ampia rappresentanza
in seno al governo di Karzai - sino alla metà degli incarichi -
per dare voce all'etnia pashtun; in cambio gli americani
chiederebbero in primo luogo la pacificazione del paese,
necessaria alla realizzazione dei grandi gasdotti.
Tali contatti sotterranei determinano però l'ostilità dei vari
signori della guerra che hanno combattuto a fianco delle truppe
americane contro il regime talebano e, per imbonirli,
l'amministrazione Bush non ha potuto che dare via libera alla
ripresa della coltivazione, della raffinazione e del commercio
dell'oppio, tanto che quest'anno con circa 2.500 tonnellate di
oppio l'Afganistan è tornato ad essere il primo produttore
mondiale di eroina, come affermato da Adam C. Bouloukos
dell'agenzia antidroga dell'Onu a Kabul.
Il fragile governo Karzai è intanto sull'orlo della bancarotta,
incapace di ottenere dai governatori delle dodici province il
pagamento delle tasse dovute e impossibilitato a pagare persino
i propri funzionari e i 100 mila soldati del suo modesto
esercito, in grado di controllare a stento la capitale, con il
sostegno militare dell'Isaf, il contingente internazionale di
cui fa parte anche l'Italia.
La provincia settentrionale di Mazar i-Sharif é controllata
totalmente dal governatore-signore della guerra Abdul Rashid
Dostum che rappresenta uno dei poteri più forti sia
economicamente che militarmente. Nel sud, al confine col
Pakistan, nelle aree tribali pashtun regna invece il capo
mujahidin Gulbuddin Hekmatyar alleato dei talebani ancora
presenti.
Finanziariamente privo di mezzi, politicamente debole all'estero
e in patria, militarmente inconsistente, il governo Karzai
sembra destinato ad un crollo che riaprirà fatalmente una guerra
che gli Usa e gli alleati occidentali hanno già perso, ma di cui
rimangono prigionieri.
In Iraq i costi dell'occupazione Usa risultano ormai
insostenibili (solo per il mantenimento di 148.000 uomini
occorrono 4 miliardi di dollari al mese), tanto che dei 165 mila
soldati presenti in luglio si sta procedendo ad una riduzione
che dovrebbe portare ad una presenza di 146 mila, oltre a circa
14 mila militari "alleati" soprattutto inglesi, italiani e
spagnoli.
Soltanto a Baghdad i soldati Usa sono 36 mila, ma non in grado
di controllare la capitale.
Il numero totale dichiarato dei morti americani di questa guerra
- compresi incidenti e suicidi - è ormai prossimo ai 300
(durante la prima guerra del Golfo i caduti furono ufficialmente
147), mentre fonti ufficiose parlano di 8 mila feriti, di cui
molti anche gravemente.
Il generale Tommy Frank ha ammesso che le truppe Usa subiscono
quotidianamente da 10 a 25 attacchi, con circa due morti ogni
giorno.
Appare evidente che vi è una guerriglia diffusa, così come una
larga ostilità popolare, che non può essere attribuita soltanto
agli irriducibili del partito Baath, e che coinvolge per motivi
anche religiosi pure gli sciiti, nonostante fossero stati
ferocemente repressi dal regime di Saddam Hussein.
In tale contesto e prevedendo che l'occupazione potrebbe
protrarsi anche per 4 anni, l'amministrazione Bush sta cercando
di coinvolgere la Nato, magari con la copertura politica di un
mandato dell'Onu, nel controllo militare dell'Iraq e,
parallelamente, sta cercando di creare un esercito formato da
iracheni (compresi gli ex-soldati del passato regime) per
fiancheggiare e sostituire i soldati americani nel controllo di
oltre 2000 obiettivi a rischio quali palazzi istituzionali,
caserme, comandi, ambasciate, oleodotti, pozzi petroliferi, etc.
L'estrazione del petrolio procede a rilento in conseguenza delle
interruzioni di energia elettrica e richiede investimenti per la
ristrutturazione degli impianti degradati dall'embargo e
danneggiati dalla guerra, dai saccheggi e dai sabotaggi; senza
parlare dei barili sottratti dal contrabbando. Per questo gli
Usa cercano di coinvolgere le compagnie petrolifere straniere
che però appaiono riluttanti vista la perdurante situazione di
insicurezza.
Delle dodici compagnie straniere che, a partire dal primo agosto
sino alla fine dell'anno, saranno autorizzate al pompaggio
(almeno 650 mila barili al giorno) e alla vendita del greggio
iracheno, circa la metà sono imprese "donatrici" della campagna
presidenziale di Bush (Exxon-Mobil, Chevron-Texaco,
Conoco-Philipps, Maraton, Valero Energy); inoltre ci sono le
europee Shell, British Petroleum, Total e Repsol Ypf, e la
cinese Sinochem.
A metà luglio si è instaurato il governo provvisorio composto da
25 membri, di cui 13 sono rappresentanti della maggioranza
sciita, oltre a sunniti, curdi, cristiani e turcomanni, in gran
parte personaggi rientrati dall'esilio e legati agli Stati
Uniti. Anche il segretario nazionale del Partito comunista
iracheno è ministro del consiglio legislativo provvisorio che ha
spiegato la linea del proprio partito dichiarando "Siamo
contrari all'occupazione ma se gli americani si ritirassero
subito, senza un governo di transizione ed un minimo di
struttura statale ricostruita, l'Iraq precipiterebbe nel
baratro".
Secondo il governatore statunitense Paul Bremer le prime
elezioni democratiche potrebbero svolgersi a metà del 2004
(ossia prima della convenzione repubblicana e della nomination
presidenziale di Bush), ma da tempo le autorità americane hanno
detto che non accetterebbero un governo a guida islamica.
Per comprendere il grado di indipendenza del governo provvisorio
basti dire che ha sede nello stesso palazzo che a Baghdad ospita
il quartier generale anglo-americano.
Detto questo si capisce perché, appena due giorni dal suo
insediamento, il palazzo è stato bersagliato con granate
anticarro Rpg.
Ma la politica dell'amministrazione Bush, oltre a costare
ingenti risorse finanziarie e costi umani sempre più elevati tra
le truppe d'occupazione, negli Stati Uniti ha determinato ed
acuito un durissimo scontro sotterraneo proprio tra i vertici
governativi, militari ed economici, divisi su le prospettive
globali di dominio e sfruttamento.
La stampa continua a fantasticare attorno ai ruoli di "falchi" e
"colombe", in realtà si può intravedere una divaricazione
d'interessi tra i disegni dell'apparato militare, dell'industria
bellica e della lobby nucleare da un lato, miranti a sviluppare
una politica di guerra totale e senza soluzione di continuità, e
dall'altro i progetti delle grandi compagnie petrolifere e dei
gruppi interessati alla costruzione degli oleodotti
continentali, che invece necessitano di sicurezza e stabilità
nell'area.
L'amministrazione Bush, fortemente e direttamente legata ai
principali gruppi petroliferi, non appare più in grado di
garantire gli affari di tutti i settori e di tutti i poteri che
l'hanno appoggiata e, con ogni probabilità, anche dietro i
dossier segreti, lo smascheramento della propaganda bellica, lo
scandalo del falso traffico di uranio tra Niger e Iraq, le
accuse contro la presidenza, i continui allarmi terroristici di
questi mesi, divampa una guerra interna senza esclusione di
colpi che sta dilaniando i palazzi del potere Usa.
Non casualmente, alcuni osservatori americani, sia riferendosi
all'11 settembre 2001 che al black out di ferragosto hanno
intravisto scenari da colpo di stato e parlato di strategia
della tensione.
Dal nostro punto di vista, distante dai centri di comando e
dalle loro logiche, possiamo soltanto limitarci a registrare e
sottolineare che quanto sta avvenendo da alcuni anni negli Stati
Uniti non rientra nella normale gestione di un potere che pure
non ha mai smesso di ricattare governi e reprimere insorgenze,
intervenire militarmente e combattere guerre mai dichiarate,
instaurare dittature e destabilizzare paesi, eseguire attentati
e commissionare assassinii.
È una continua emergenza che lascia trasparire una crisi senza
precedenti, da basso-Impero.
La gravità della situazione è comprovata da due fatti: da un
lato il tentativo di recuperare e coinvolgere l'Onu, la Nato e
l'Europa nella gestione politico-militare dell'Afganistan e
dell'Iraq, dall'altro l'ostinazione con cui davanti alla
cosiddetta opinione pubblica viene negato il fatto che nei paesi
"liberati" crescono resistenze, guerriglie e rivolte contro i
"liberatori".
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