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(it) A-Rivista Anarchica n.289: Gli anarchici contro il fascismo (Pt.IV)

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Date Fri, 9 May 2003 13:30:11 +0200 (CEST)


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Gli anarchici contro il fascismo
1919-1945 (e oltre). Sulle barricate, in carcere, al confino, in
Spagna, nella clandestinità.

SPAGNA 1936

Tra i primi ad accorrere in Catalogna all’indomani del golpe del
generale Franco, gli anarchici italiani costituirono uno dei
gruppi più impegnati al fronte.

E soprattutto furono tra i più decisi oppositori della politica
staliniana sostenuta dai vari Togliatti, Vidali, ecc. La tragica
e simbolica vicenda di Camillo Berneri.

La notizia che in Spagna era scoppiata la rivolta popolare
contro il "golpe" di Franco fu come lo scoppio di una bomba,
negli ambienti dell’emigrazione antifascista italiana a Parigi.
Gli esuli, da anni costretti a lottare sulla difensiva, videro
subito che in terra di Spagna si osava finalmente dire
chiaramente no al fascismo, e si impugnavano le armi per
impedirne il trionfo.

Mentre alcuni compagni partirono immediatamente per andare a
combattere a Barcellona, molti altri si preparavano a partire e
si riunivano frequentemente per decidere il da farsi. Ad un
convegno appositamente indetto, di tutte le forze politiche
antifasciste italiane a Parigi, sia Longo per i comunisti sia
Buozzi per i socialisti dichiararono che i loro partiti erano
disposti ad inviare aiuti sanitari e a dare un appoggio morale
al popolo spagnolo, ma non erano d’accordo per un intervento
armato. Il rappresentante dei repubblicani restò sulle generali,
evitando qualsiasi impegno, per cui gli anarchici ed i
"giellisti" (militanti del movimento Giustizia e Libertà) furono
gli unici a sostenere la necessità di un’immediata partenza per
la Spagna. E così fecero.

Il 18 agosto 1936, infatti, meno di un mese dopo l’insurrezione
popolare (19 luglio), partì per il fronte d’Aragona un primo
scaglione di antifascisti italiani, arruolatisi volontariamente
nella sezione italiana della colonna Ascaso, organizzata e
formata da militanti anarchici della FAI e anarcosindacalisti
della CNT. La maggior parte di questi primi volontari italiani
erano anarchici (un centinaio).

Altri anarchici italiani, giunti in Spagna successivamente, si
aggregarono alla colonna Durruti (CNT-FAI), alla colonna Tierra
y Libertad (CNTFAI), alla colonna Ortiz (CNT-FAI) e ad altre
formazioni. Secondo una stima documentata dai registri di
arruolamento della sezione italiana, depositati presso la
CNT-FAI, gli anarchici italiani combattenti in Spagna furono
seicentocinquantatre.

Nei primissimi mesi dell’inizio della rivoluzione moltissimi
compagni italiani furono trascinati da un entusiasmo
rivoluzionario che li portò sempre in prima fila: è in questo
periodo che morirono e rimasero feriti la maggior parte di essi.
Molti compagni feriti ritornarono al fronte a combattere
nuovamente. Questo, per esempio, è il caso del compagno Pio
Turroni, che ferito una prima volta in ottobre ritornò dopo
pochi mesi al fronte, dove rimase nuovamente ferito; rientrò
quindi a Barcellona, dove fu commissario politico per gli
italiani, nella caserma Spartacus.

Gli anarchici italiani mantennero sempre una posizione coerente,
soprattutto di fronte alla controrivoluzione comunista, come
nelle giornate del maggio ’37 a Barcellona. Non è un caso che
gli stalinisti in quei giorni assassinarono gli anarchici
italiani Camillo Berneri (che redigeva a Barcellona il periodico
in lingua italiana "Guerra di classe") e Francesco Barbieri.

Anche di fronte al processo di militarizzazione la loro
posizione intransigentemente rivoluzionaria fu espressa in modo
pressoché unanime. Già il 10 ottobre prima, e il 13 novembre
poi, stilarono rispettivamente due documenti in cui denunciavano
il pericolo di involuzione controrivoluzionaria, se fosse
passato, come poi passò, il processo di militarizzazione
(documenti firmati, per la sezione italiana della colonna
Ascaso, da Rabitti, Mioli, Buleghin, Petacchi, Puntoni, Serra,
Segata). Anche se durante le tragiche giornate della
controrivoluzione comunista essi si trovarono in disaccordo con
la "dirigenza" della FAI e della CNT e nonostante avessero ormai
compreso che le sorti della rivoluzione volgevano al peggio,
essi continuarono a combattere e a morire.

Sono circa sessanta gli anarchici italiani morti in Spagna e
centocinquanta i feriti, di cui molti morirono più tardi a causa
delle privazioni sopportate nei campi di concentramento in
Francia.

il senso di una presenza

Il contributo anarchico alla Resistenza non si limitò solo alle
azioni militari. Ove possibile, i militanti anarchici si
impegnarono nell’organizzare e difendere la vita delle
popolazioni duramente colpite dalla brutalità della guerra
istituendo spacci e cooperative di produzione e consumo,
embrioni di quella società più libera e giusta alla cui
costruzione avevano dedicato la loro vita.

Nel corso degli ultimi anni numerosi storici hanno intrapreso
una revisione critica rispetto alle forze ed agli ideali che
hanno agitato la prima metà del secolo scorso. Ciò che accomuna
tutti questi lavori è la costante rimozione dell’antifascismo,
della sua tensione rivoluzionaria e delle sue componenti
ideologiche. Al contrario il fascismo, quello storico, è stato
oggetto di una rivalutazione storiografica, che trova l’esempio
più fine, sistematico ed acuto nell’opera di Renzo De Felice, e
in quella dei suoi collaboratori raccolti attorno alla sua
collana "I fatti della storia" edita da Bonacci. Questa
interpretazione elude e manipola le responsabilità storiche e
politiche del fascismo, ne minimizza la natura reazionaria,
antiproletaria ed antidemocratica e accomuna un regime
distruttivo, liberticida e totalitario ai governi autoritari ai
quali era abituato il nostro gracile sistema liberale. La
Resistenza, di cui volutamente si ignora la dimensione europea,
viene vista solamente nell’ottica italiana, come crudele guerra
civile dove gli uni e gli altri vengono posti sullo stesso
piano.

Questa revisione storica - un fenomeno che coinvolge tutta
l’Europa, si pensi al revisionismo storico dei Nolte, dei
Rassinier, degli Irving che negano la realtà dell’Olocausto o ne
riducono la portata fino ad annullare le responsabilità del
regime nazista - si esprime anche attraverso la rimozione dagli
studi e dalle analisi della consistenza e del ruolo che svolsero
in quegli avvenimenti le minoranze, quelle minoranze agenti,
come furono gli anarchici o i militanti di Giustizia e Libertà,
o quelle minoranze guida, come cercarono di essere i comunisti e
i socialisti.

Una colpa, questa, imputabile anche alla storiografia ufficiale
della Resistenza, che più preoccupata di istituzionalizzare e di
sacralizzare la lotta antifascista, ha sistematicamente
censurato o mistificato quelle esperienze difficilmente
riconducibili entro le scelte politiche dettate dalla
ricostruzione o dalla guerra fredda, liquidando sbrigativamente
la scomoda opposizione di quei movimenti e gruppi rivoluzionari
che lottarono contro il Fascismo per compiere quella rivoluzione
sociale che avevano da sempre preconizzato.

inferiorità psicologica

Non è un caso dunque che, se si escludono pochi accenni in
alcune pagine di Ferruccio Parri, nelle lezioni di Carlo
Francovich e negli scritti di pochi altri, non vi sia traccia
nella storiografia della Resistenza della presenza anarchica
nella lotta partigiana. Eppure la Resistenza, senza citare
coloro che caddero in Spagna donando la propria vita per la
libertà di tutti, prende anche i nomi delle brigate Malatesta e
Bruzzi che operarono in Lombardia, della formazione Amilcare
Cipriani a Como, delle pistoiesi, Squadre Franche Libertarie,
delle formazioni libertarie liguri, del Battaglione Lucetti e
della Elio di Carrara.

Gli anarchici parteciparono alla Resistenza in maniera massiccia
e pagarono un alto tributo di uomini e di sangue, ma subirono
l’egemonia delle altre forze della sinistra, in particolare per
l’assenza di un’organizzazione specifica e di un comando
militare unico che inquadrasse tutto il movimento nella lotta di
liberazione. Naturalmente si organizzarono in proprie formazioni
partigiane, ma di regola si trovarono inquadrati nelle
Garibaldi, nelle Matteotti, nelle formazioni di Giustizia e
Libertà. "Le loro formazioni di combattimento - scrive Gino
Cerrito in merito alla partecipazione anarchica alla Resistenza
- rimangono legate al Partito comunista, al Partito socialista,
al Partito d’azione. Nei CLN ai quali partecipano con delegati
qualificati non riescono mai ad imporre una linea politica
rivoluzionaria, un atteggiamento in qualche modo orientato in
senso libertario. Anche se essi non sono secondi a nessuno nella
lotta armata contro il nazifascismo non riescono a superare il
gradino di inferiorità psicologica in cui li pone la loro
carenza organizzativa e la mancanza di un programma politico
uniforme". Una situazione questa che trova una spiegazione nella
storia stessa dell’anarchismo nell’avversione verso il
militarismo e la gerarchia nella convinzione che qualsiasi forma
di governo è negazione della libertà umana.

dispersione e ritardi

Eppure gli anarchici dettero un contributo cospicuo alla lotta
contro il fascismo. Fin dal 1921 quando la violenza fascista
iniziò a colpire la stampa e i militanti, la risposta fu la
resistenza ad oltranza attraverso l’organizzazione di
manifestazioni, la partecipazione agli scioperi generali e
l’adesione agli Arditi del popolo, movimento politicamente
eterogeneo che cercherà di reagire colpo su colpo alle
prepotenze squadristiche. L’ascesa al potere di Mussolini e del
suo governo segna una svolta nella storia degli anarchici
italiani in quanto ne determina la dispersione. Il movimento
subisce più duramente degli altri partiti antifascisti (in
proporzione naturalmente alle forze) le violenze squadriste
prima e quelle legali poi. All’incendio delle sedi e delle
sezioni dell’USI, il sindacato di tendenza anarcosindacalista
alle devastazioni di tipografie e redazioni, alle uccisioni
seguono i sequestri, gli arresti, il confino. L’anarchismo
italiano entra in una fase di clandestinità, ma le sue forze si
vanno sempre più assottigliando. Ai superstiti, perseguitati,
disoccupati, spiati non resta che la via dell’esilio. Coloro che
in Italia erano scampati alla galera e alla morte trovano
rifugio soprattutto in Francia.

Anche all’estero la vita degli anarchici come del resto quella
di tutti i fuoriusciti, non fu facile. La repressione era dura
anche nei paesi ospitanti. La guerra di Spagna poi si prese
coloro che erano sfuggiti al carcere o al confino.

La sconfitta del movimento anarchico in Spagna fu dura e si
ripercosse anche sui fuoriusciti italiani. Quest’ultimi non
fecero nemmeno in tempo a riorganizzarsi che lo scoppio della
guerra mondiale e la caduta della Francia li disperse ancora una
volta. Fu quello il momento più grave. Quelli che non riuscirono
a darsi alla macchia o a fuggire furono rastrellati dalle
autorità tedesche e francesi e spediti nei campi di
concentramento o consegnati alle autorità italiane. Non c’è
dunque da meravigliarsi se la caduta del fascismo trovò il
movimento anarchico disperso, mantenuto vivo più che altro nella
memoria di molti lavoratori e nell’atteggiamento individuale dei
militanti rimasti. Il movimento anarchico giunge così in ritardo
e fortemente limitato nelle sue possibilità di azione
partigiana. Queste carenze si aggravarono dopo il 25 luglio del
’43, quando di fronte al succedersi degli avvenimenti ci sarebbe
stato un bisogno ancora maggiore dell’apporto dei vecchi e più
prestigiosi militanti che affollavano le isole di confino. Ma
mentre alla caduta di Mussolini i militanti di tutti gli altri
partiti venivano liberati dal governo Badoglio gli anarchici
vengono trattenuti in un primo tempo a Ventotene e
successivamente trasferiti al campo di concentramento di Renicci
di Anghiari vicino ad Arezzo da dove riescono a fuggire solo
dopo 1’8 settembre.

Carente di quadri politici, dispersi nell’esilio nelle
persecuzioni, morti in Spagna, privo di aiuti da parte degli
alleati, stretto nella logica della politica dei due blocchi, il
movimento anarchico può confidare solo nelle proprie forze e in
ciò che i militanti riescono a conquistarsi in battaglia, sia
per quanto riguarda le armi che i rifornimenti.

non solo lotta armata

Per tutte queste ragioni gli anarchici preferirono nella
maggioranza dei casi aggregarsi a formazioni controllate dai
partiti comunista, azionista e socialista, anche in quelle
località dove la presenza anarchica era sufficientemente
numerosa da consentire formazioni di soli anarchici. Il
contributo anarchico alla Resistenza non si limitò alle azioni
militari, ovunque i militanti anarchici si impegnarono
nell’organizzare e difendere la vita delle popolazioni duramente
colpite dalla brutalità della guerra istituendo spacci e
cooperative di produzione e consumo, embrioni di quella società
più libera e più giusta alla cui costruzione avevano dedicato la
loro vita.

Furio Biagini


A - rivista anarchica
anno 33 n. 289
aprile 2003

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