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(it) Italy, FDCA, Cantier #27: Dopo il 7 Ottobre: la società israeliana tra radicalizzazione e dissenso - Chiara Cruciati (ca, de, en, pt, tr)[traduzione automatica]

Date Fri, 2 Aug 2024 09:19:03 +0300


Chi si fosse trovato in mezzo alla società israeliana prima del 7 ottobre 2023 avrebbe potuto osservare senza troppo sforzo una tendenza compatta alla rimozione della questione palestinese. A settembre dello scorso anno, pochi giorni prima dell'attacco di Hamas, si respirava la stessa aria ormai presente da anni, frutto del radicamento di quella che potremmo definire la dottrina Netanyahu: l'occupazione dei palestinesi non va risolta, va solo gestita. -- In poche ore quella percezione si è sbriciolata, provocando uno choc profondo, a livello individuale e a livello collettivo. Quello choc, a oggi, non ha prodotto ancora un cambiamento profondo della narrazione interna, ma al contrario sembra di assistere a un'ulteriore radicalizzazione di un pezzo significativo e maggioritario della società israeliana. Una società che mantiene molte delle caratteristiche storiche che le sono proprie fin dalla nascita,quando nel 1948 è stato creato lo Stato di Israele, con l'espulsione forzata dell'80% della popolazione palestinese dell'epoca, quasi un milione di persone: continua a essere una società profondamente frammentata secondo linee e direttrici diverse, etniche, religiose, sociali, economiche. Una società che tende a non mescolare tali direttrici, fatta di comunità che spesso non condividono spazi e vita quotidiana, anche all'interno della stessa comunità ebraica israeliana, senza considerare quella palestinese dentro Israele. Oggi quella società, nella sua maggioranza, continua a ritenere l'offensiva su Gaza l'unica via d'uscita possibile dallo choc del 7 ottobre, confermando di fatto la dottrina Netanyahu di "gestione" dell'ingestibile.
Potrebbero, in tal senso, apparire contradditorie le immagini delle proteste - riprese con cadenza settimanale - contro il governo Netanyahu, con le famiglie degli ostaggi marciare e proseguire nei loro sit-in di fronte alle sedi istituzionali e chiedere un accordo di scambio con Hamas.Come potrebbero apparire contradditorie le coraggiose proteste di una minoranza che chiede il cessate il fuoco e la fine dell'occupazione militare. Non lo sono: il dissenso interno esiste, ma - eccezion fatta per la minoranza di cui sopra - è per lo più un dissenso che non mette in discussione il sistema di occupazione e il colonialismo d'insediamento. È questo, credo, l'elemento che ha resistito al 7 ottobre.
Prima del 7 ottobre gli israeliani avevano completamente rimosso la questione palestinese: la Palestina non esisteva, non esisteva un'occupazione, non esisteva Gaza, non esisteva la Cisgiordania, non esisteva Gerusalemme Est, non esisteva il regime di apartheid interno. Semplicemente gli israeliani non lo vedevano. Il 7 ottobre è stato uno choc per la perdita di vite umane, 1.100 persone, per il rapimento di 250 cittadini ma anche perché è avvenuto in un vuoto di consapevolezza: ha ricordato che i palestinesi esistono. Ma invece di traslare questa consapevolezza in una soluzione politica si sta scegliendo per l'ennesima volta una soluzione militare, che ha già ampiamente dimostrato di non essere tale. I sondaggi dicono che la maggior parte della popolazione israeliana ritiene necessaria l'offensiva su Gaza e ritiene necessario che l'offensiva terrestre si allarghi su Rafah. Allo stesso tempo Netanyahu nei sondaggi resiste e stacca di decine di punti percentuali rivali come il centrista Yair Lapid.
Il primo ministro è sì sulla graticola perché buona parte della società, di destra e di sinistra, lo ritiene uno dei principali responsabili del grande fallimento dell'esercito e dell'intelligence del 7 ottobre, ma continua a rappresentare per molti la garanzia che mai i palestinesi godranno di autodeterminazione. È la garanzia che una soluzione politica non ci sarà. Netanyahu sa che porre fine alla guerra potrebbe porre fine alla sua lunga esperienza politica, ma allo stesso tempo sta in qualche modo definendone il futuro. Lavora per mostrarsi di nuovo per quello che si è mostrato in tutti questi anni,«Mister sicurezza», l'uomo che mai permetterà il riconoscimento dello Stato di Palestina, che mai riconoscerà l'indipendenza o il diritto all'autodeterminazione dei palestinesi, l'uomo che realizzerà di fatto l'annessione dei territori occupati e questo alla maggior parte della società israeliana è quello che interessa sentirsi dire.
È questo tipo di pensiero che annulla di fatto qualsiasi forma di dissenso realee che ha permesso di condurre a un vero e proprio stato di polizia. La repressione interna nei confronti dei palestinesi adesso si è allargata anche agli israeliani di sinistra e critici verso le politiche del proprio governo: arresti, intimidazioni, minacce di licenziamenti dal posto di lavoro e sospensioni non riguardano più soltanto i palestinesi.

Molti attivisti israeliani lo dicono, quasi con stupore: «Abbiamo scoperto che anche noi, ebrei israeliani di sinistra contrari all'occupazione, sostenitori di una soluzione politica e per la pace - siamo nel mirino, anche noi possiamo essere repressi e silenziati, mentrefinora questo tipo di stato di polizia era riservato solo a quello che viene percepito come il nemico interno, cioèai palestinesi».
Non significa che non esista speranza in un cambiamento reale. Vorrei riprendere le parole che mi ha riferito Ilan Pappé, uno dei più grandi storici israeliani:serviranno anni, ma la società israeliana è destinata alla decolonizzazione, un processo doloroso per il colonizzatore ma irreversibile. Israele sta concludendo un percorso iniziato più di un secolo fa. Il sionismo come ideologia politica non poteva che evolversi in questo modo, diventare un'ideologia estremamente religiosa e nazionalista, messianica e trasformare il colonialismo d'insediamento in un regime di apartheid. Un simile progetto politico difficilmente riuscirà a sopravvivere in un mondo in cui ilcolonialismo, pur tuttora esistente in forme nuove, indirette, non è più considerato legittimo. Israele è nato troppo tardi, si è affacciato alla Storia in un periodo in cui i paesi del Medio Oriente, del Nord Africa, dell'Africa, dell'America latina si stavano liberando dai propri colonizzatori e in un periodo storico in cui i palestinesi avevano già maturato una propria identità nazionale.
A detta di molti esperti e di molti analisti, il sionismo e quindi Israele si sono cacciati in un vicolo cieco,avendo generato un regime di apartheid permanente che non è più sostenibile, che è antistorico.
Credo che tutto quello a cui stiamo assistendo in questo periodo – la mobilitazione della società civile, la radicalizzazione interna alla società israeliana e probabilmente anche quella della società palestinese, vista la violenza militare a cui è sottoposta dovrà per forza portare a una presa di coscienza, a un'evoluzione diversa e chissà che magari dalla tragedia che stiamo vivendo in questi mesi non nasca tra qualche anno una vera e propria soluzione politica.
Chiara Cruciati è redattrice Esteri e vicedirettrice del quotidiano «il manifesto». Ha pubblicato tra gli altri Cinquant'anni dopo. I territori palestinesi occupati e il fallimento della soluzione a due Stati e Israele, mito e realtà. Il movimento sionista e la Nakba palestinese settant'anni dopo (Edizioni Alegre). La ringraziamo per averci offerto la sua collaborazione.

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