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(it) Italy, Sicilia Libertaria: Editoriale - Guerra continua (ca, de, en, pt, tr)[traduzione automatica]

Date Sat, 27 Jul 2024 07:58:41 +0300


Oramai le definizioni si sprecano: guerra grande, guerra permanente, terza guerra mondiale a pezzi. Ma questa mania definitoria appare più come lo specchio dell'impotenza e della rassegnazione che dello sforzo di comprendere i processi in atto; non parliamo poi di arrestare la deriva guerrafondaia che ci investe oramai da lungo tempo. Un'informazione perfettamente intruppata nella logica oppositiva prevalente copre con una spessa coltre ogni possibilità di fare chiarezza, di analizzare le plurime e articolate dinamiche, di ricondurre ai fondamenti che dovrebbero indirizzare le relazioni tra società e gruppi - rispetto, dialogo, scambio, umanesimo. Che si tratti della guerra in Ucraina, del massacro in Palestina, della devastazione di intere regioni sotto il giogo delle armi, delle quotidiane tragedie di migranti che annegano nei mari o vengono ammazzati sui luoghi di lavoro, una narrazione artefatta oscilla tra il pietismo e la realpolitik, il cui unico intento è riaffermare le logiche del dominio, rinsaldare i ranghi e mobilitare l'opinione pubblica. Da tempo oramai è in atto la tendenza a polarizzare le situazioni per cui o si è per Israele-sionismo o per Hamas-Palestina: o si è per Zelensky-Ucraina o per Putin-Russia. In questo modo ogni altra possibilità viene cancellata, le tante e diverse alternative ingabbiate dentro logiche nazionaliste, sovraniste, imperialiste e guerreggianti.

La guerra in Ucraina, il prodotto perfetto della contesa imperialista tra un Occidente più o meno declinante e un asse russo-cinese in ascesa nelle logiche di comando, si è venuta ammantando della eroica resistenza di un popolo contro il vile usurpatore, della difesa dei valori di libertà e indipendenza da un regime autocratico liberticida. Difficile, se non impossibile, uscire da questo schema; chiedersi ad esempio quale interesse avrebbero avuto le popolazioni del Donbass ad attizzare uno scontro, sorretto dalla miope e fasulla logica delle appartenenze nazionali, piuttosto che intraprendere un percorso di coesistenza, come pure qualche volta accade. Quale interesse avrebbe il popolo ucraino a prendere le armi e farsi ammazzare in nome di un governo che ha perseguito la via dello scontro piuttosto che quella della pace, invece di promuovere e lottare per una società più giusta e senza guerre. La stessa cosa naturalmente vale per il popolo russo. A meno che non si voglia sostenere che le masse sono cieche e bisogna guidarle e controllarle. Allora di quale libertà andiamo parlando?

Ancora, mentre in Palestina avviene l'indicibile, quello che mai avremmo immaginato - lo sterminio di una popolazione inerme cui assistiamo in presa diretta con la macabra conta dei morti, scandita nei notiziari e sulla stampa, senza che tutto questo riesca a provocare non un rivolgimento capace di arrestare l'orrore quotidiano, neppure un sussulto o una presa di distanza - il dibattito pubblico, non solo in Italia, è occupato da un presunto e rimontante antisemitismo o dalla disquisizione se in questo caso sia possibile usare la parola genocidio. Come fosse un qualche marchio registrato o un copyright. Tutto coperto e giustificato dietro il vile attacco di Hamas del 7 ottobre. Allora piuttosto che interrogarsi sulle ragioni di una tragedia lunga decenni, sulla condizione esasperata di una popolazione costretta a vivere in un regime di apartheid, la via più semplice è stata quella di avviare (anche se sarebbe più corretto dire portare a compimento) l'espulsione dei palestinesi dalle loro terre. Con il benestare di quell'Occidente schermato dietro la sua presunta civiltà, quando sono noti a tutti i suoi precipui interessi geopolitici in quell'area.

Lo stesso vale per tutti quei conflitti che insanguinano vaste aree del mondo (e ingrassano l'industria delle armi e sorreggono una buona fetta del Pil di quegli stati con interessi imperialistici, compresa la disastrata Italia che gioca a fare la grande tra i grandi). Un lungo elenco che si aggiorna continuamente dal Sudan, al Congo, dallo Yemen alla Siria, dalla Libia all'Iraq, per citare solo le situazioni più eclatanti. Come in una nuova riedizione della spartizione coloniale di fine Ottocento le potenze imperiali contrapposte - blocco occidentale e blocco orientale- si muovono, calpestando popolazioni e territori, sul filo di un perenne conflitto, finora al di qua di una guerra generalizzata. Ma come sa chiunque abbia solo sfogliato un manuale di storia del Novecento, all'origine della prima guerra mondiale vi furono principalmente proprio le rivalità coloniali ed economiche, la formazione di blocchi contrapposti e la corsa agli armamenti. Quadro che caratterizza le relazioni tra stati in modo pregnante dalla guerra in Ucraina in avanti.

Intanto tra le vittime più misconosciute di tutto questo disordine (o ordine che stati e capitale armati impongono) sono le centinaia di migliaia di migranti che fuggono, dai luoghi più disparati e tormentati dalle guerre come dal neocolonialismo, per aggrapparsi alla speranza di approdare nelle civili e opulente metropoli dell'Occidente. Ma se non muoiono lungo il tragitto ad attenderli sarà una tremenda condizione di manodopera sfruttata, invisibile e disumanizzata allo stesso tempo. E gli esempi in Italia sono innumerevoli, quello più recente del giovane bracciante indiano, Satnam Singh, oppure del giovane ivoriano Daouda Diane, scomparso il due luglio di due anni fa ad Acate e di cui non si è saputo più nulla. Ecco, per tutta questa umanità derelitta il massimo che riusciamo a provare è la pietà, per il resto rimane nell'immaginario collettivo il sospetto per lo straniero e la paura del nero.

In un articolo, apparso sul n. 114 della rivista gli asini, Emanuele Dattilo per rappresentare la condizione dell'oggi usa l'espressione "regime dell'irrealtà". L'opinione, il chiacchiericcio coprono la realtà, disegnano un mondo in cui non siamo più in grado di cogliere quello che conta, quello che dovrebbe distinguere la condizione di umanità.

Le guerre, le migrazioni forzate, la crisi ambientale e climatica, la precarietà personale e sociale, il cinismo diffuso, l'arroganza e la prepotenza ci gettano nello sconforto e nell'impotenza. Ma la possibilità di reagire a tutto questo è sempre viva. Dattilo, nel suo articolo, la individua nel pensiero di Elsa Morante, Aldo Capitini e Ferdinando Tartaglia. Io credo che il nostro primo compito dovrà essere quello di disertare il campo, disertare il campo di battaglia e disertare il campo ideologico che ci costringe a schierarci per l'uno o l'altro dei contendenti nel progetto di dominio. Disertare il regime e riabbracciare la tensione utopica della trasformazione, con lucidità e perseveranza.

Angelo Barberi

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