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(it) Sicilia Libertaria: Battaglie. Lavorare meno, lavorare tutti, a parità di salario. UNA PARTITA DA GIOCARE BENE (ca, de, en, pt, tr)[traduzione automatica]

Date Sat, 18 Mar 2023 08:42:21 +0200


La litania della crisi economica ci affligge costantemente, una crisi che di volta in volta ha ponderate e articolate spiegazioni: le difficoltà della Cina, i gravi problemi degli Stati Uniti, gigante sul viale del tramonto, la ripresa dell'economia nel post pandemia che ha innescato una spirale inflazionistica, la guerra proditoria della Russia contro l'Ucraina e la conseguente crisi energetica e del grano, per indicare alcuni fattori che caratterizzano l'economia globale; se poi veniamo alla situazione italiana si fa appello a quei fantomatici limiti strutturali che impedirebbero una crescita finalmente durevole dell'azienda nazionale: mancanza di infrastrutture, bassa produttività, scarsa competitività interna ed esterna. I dati che ad ogni occasione vengono snocciolati, da Istat, Eurostat, Banca d'Italia ed altre decine di istituti di vario genere e natura, certificano questo stato di crisi perenne, salvo di tanto in tanto menzionare un qualche indicatore che in un qualche mese, o trimestre fa registrare un segno positivo, utile a sollevare il morale. Ma il quadro generale restituito è quello di una situazione che oramai da decenni si avvita in un continuo stato di difficoltà, per tacere delle precedenti e puntuali crisi del sistema capitalistico, studiate dagli economisti attraverso i cosiddetti cicli. Tuttavia questa costanza, piuttosto che far individuare nell'economia di mercato e capitalistica - nonostante disponga di condizioni favorevoli come manodopera a basso costo e uso illimitato di risorse naturali e collettive - la responsabile del fallimento e un'intrinseca incapacità di rispondere ai bisogni a volte elementari dell'intera società, viene presentata come frutto delle limitazioni delle potenzialità che il mercato e il capitale altrimenti sarebbero in grado di sprigionare. Così l'enfasi che viene posta sulla crisi si trasforma in un potente strumento per imporre una sostanziale precarietà del lavoro - dopo tempo si riprende a parlare di lavoratori poveri, costretti a svolgere più attività, senza contare i tanti disoccupati o inattivi, come vengono classificati dalle statistiche - in nome di un presunto interesse corporativo nazionale. Mentre al contrario le smisurate disuguaglianze certificate persino da istituzioni rappresenterebbero un piccolo inconveniente necessario affinché si avvii nuovamente quel circuito che assicuri il benessere della maggioranza. Prima gli investimenti e i profitti, poi migliori salari e retribuzioni, si sostiene: una presunta legge economica mai dimostrata.

In questo quadro così deprimente in cui si danno per scontati assiomi - crescita, competitività, ecc -, anche da parte di chi dovrebbe opporvisi, all'orizzonte di tanto in tanto appaiono miraggi che focalizzano l'attenzione pubblica e funzionano come perfetti distrattori. Un ultimo, di cui è discusso per qualche settimana, è quello della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, in modo da ampliare la platea degli occupati, detto in un linguaggio politichese-sindacalese. Naturalmente in Italia una tale proposta ha scatenato la netta contrarietà del mondo imprenditoriale che accusa di non poter sostenere in un momento di difficoltà i costi di una tale operazione. Altri ritengono che, oltre ad avere dei vantaggi sull'occupazione, ridurre l'orario di lavoro a quattro giorni settimanali comporterebbe un miglioramento nella produttività, in ragione del fatto che i lavoratori lavorerebbero con più attenzione e con meno stress. Si citano per sostenere ciò gli esperimenti positivi fatti in Islanda e quelli avviati in Spagna.

In una recente intervista rilasciata al quotidiano La Stampa, anche Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, sposa la causa della riduzione delle ore di lavoro. Quando il giornalista gli chiede: "Come si arriva nel mondo nuovo?", Landini risponde: "In molti modi, ma certo con la riapertura della discussione sul tempo di lavoro con la settimana corta di quattro giorni: chi lo ha fatto ha avuto risultati anche in termini di produttività. In parallelo si deve sancire il diritto alla formazione permanente dentro l'orario". Ora è evidente che il mondo nuovo tanto auspicato dal giornalista, Marco Zatterin, quanto dal segretario del più grande sindacato italiano molto assomiglia alla precarietà - declinabile in molti modi - in cui viviamo. Si ripropongono i soliti inattaccabili principi di innovazione, produttività, crescita, triade salvifica che come la trinità è inafferrabile e inspiegabile, e siccome additare i profitti, al fine di operare una profonda redistribuzione delle ricchezze, è "moralmente" reprensibile, si ricorre alla categoria degli extraprofitti, qualcosa di aleatorio e non precisamente qualificabile. Non va meglio, quanto a prospettare una visione ampia del passaggio cruciale in cui siamo immersi - cambiamento climatico e ambientale, pandemie, guerre permanenti, migrazioni -, nel composito (ma piccolo) arcipelago del sindacalismo di base e dei suoi referenti politici. A guardare la piattaforma dello sciopero unitario del due dicembre scorso, sembra di leggervi una stanca ripetizione di richieste - tra cui quella della riduzione dell'orario di lavoro - che appaiono astratte, prive di forza d'impatto, tanto più che la stessa proclamazione di questi scioperi è divenuta un rituale vuoto, senza corpo: il corpo e l'immaginazione dei lavoratori. Niente a che vedere con quella radicalità che in tempi non tanto lontani animò, probabilmente come fuga in avanti, la discussione e accese l'immaginazione su tempo di lavoro e tempo di vita, sul rifiuto di una sempre più invasiva società dei consumi. In questi nostri anni in cui lentamente e come intorpiditi stiamo scivolando verso una preannunciata catastrofe che potrebbe mettere a rischio gran parte se non tutta l'umanità - rinnovate minacce atomiche, profondi stravolgimenti climatici e ambientali - sarebbe necessario compiere lo sforzo di andare oltre il compitino di un rivendicazionismo che infine non si distingue molto dalla babele di chiacchiere che circola nelle stanze delle istituzioni e del potere. Non si vuole negare l'estrema difficoltà di solo prospettare un'alternativa tanto profonda, ma non si può più rinviare almeno il tentativo di iniziare una riflessione, di intraprendere percorsi, di sperimentare possibilità.

"Una partita complicata ma interessante", come conclude un suo articolo apparso di recente su Umanità Nova il mio amico Cosimo Scarinzi, che ragiona anche lui intorno a quanto grosso modo si è cercato di fare in questo articolo.

Angelo Barberi

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