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(it) Italy, Ponte Ghisolfa: La libertà che ci hanno resa! di Albert Camus da msette (ca, de, en, pt, tr)[traduzione automatica]
Date
Thu, 14 Nov 2024 08:48:58 +0200
Lo sapevate? ---- Oggi è il 23 ottobre, anniversario della rivoluzione
ungherese, uno slancio di libertà represso nel sangue. ----- Queste le
parole del grande scrittore Albert Camus pronunciate in un meeting
antifascista. ---- Nella foto ciò che rimane di una statua di Stalin
abbattuta dagli insorti. ---- Ungheria 1956 ---- La libertà che ci hanno
resa! ---- di Albert Camus ---- Discorso pronunciato in un meeting a
Parigi il 15 marzo 1957, organizzato dalla Solidarietà Internazionale
Antifascista (S.I.A.) in occasione dell'anniversario della rivoluzione
ungherese.
Il ministro di Stato ungherese Marosan, il cui nome suona come un
programma, qualche giorno fa ha dichiarato che non ci sarebbe più
controrivoluzione in Ungheria. Per una volta tanto, un ministro di Kádár
ha detto la verità. Come potrebbe esserci una controrivoluzione poiché
questa è già al potere? Non ci può essere in Ungheria che una rivoluzione.
Non sono di coloro che augurano che il popolo ungherese prenda
nuovamente le armi per un'insurrezione destinata ad essere schiacciata
sotto gli occhi di una società internazionale che le prodigherà
applausi, lagrime virtuose, ma che dopo ciò ritornerà alle sue
pantofole, come fanno gli sportivi delle gradinate, la domenica sera,
dopo una partita di boxe. Ci sono già troppi morti nello stadio e noi
non possiamo essere generosi che del nostro proprio sangue. Il sangue
ungherese si è rivelato troppo prezioso all'Europa ed alla libertà
perchè noi non ne siamo avari fino alla più piccola goccia. Ma non sono
di coloro che pensano che possa esservi un arrangiamento sia pur
provvisorio, con un regime di terrore che ha il diritto di chiamarsi
socialista come il boia dell'Inquisizione aveva il diritto di chiamarsi
cristiano. E, in questo giorno anniversario della libertà io auguro con
tutte le mie forze che la resistenza muta del popolo ungherese si
conservi, si rinforzi, e ripetuta da tutte le voci che noi possiamo
darle, ottenga dall'opinione internazionale unanime il boicottaggio dei
suoi oppressori. E se quest'opinione è troppo debole o troppo egoista
per rendere giustizia ad un popolo martire, se anche le nostre voci sono
troppo deboli, io auguro che la resistenza ungherese si mantenga ancora
finché lo Stato controrivoluzionario crolli ovunque all'Est sotto il
peso delle sue menzogne e delle sue contraddizioni.
Lo stato
controrivoluzionario
Perché si tratta ben di uno Stato controrivoluzionario. Come si può
definire in un altro modo un regime che obbliga il padre a denunciare il
figlio, il figlio a chiedere il supremo castigo per il padre; la moglie
a testimoniare contro il marito, e che ha posto la delazione all'altezza
della virtù? I tank stranieri, la polizia, le giovani di venti anni
impiccate, i consigli di operai assassinati ed imprigionati, la campagna
di menzogne, i campi, la censura, i giudici arrestati, i criminali che
legiferano e la forca ancora e sempre, è questo il socialismo, la grande
festa della libertà e della giustizia?
No, noi abbiamo conosciuto, conosciamo questo: sono i riti sanguinosi e
monotoni della religione totalitaria! Il socialismo ungherese è, oggi,
in prigione o in esilio. Nei palazzi dello Stato, armati fino ai denti,
errano i tiranni mediocri dell'assolutismo, impauriti dalla parola
stessa di libertà, inferociti da quella di libertà.
Ne è la prova che oggi, 15 marzo, giorno di verità e di libertà
invincibile per tutti gli Ungheresi, per Kádár è stato un lungo giorno
di paura.
Per dei lunghi anni, tuttavia, questi tiranni, aiutati in Occidente da
complici che niente e nessuno obbligava a tanto zelo, hanno diffuso dei
torrenti di fumo sulla loro vera azione. Quando qualche cosa ne
traspariva, essi o i loro interpreti occidentali ci spiegavano che tutto
s'arrangerebbe in una decina di generazioni, che nell'attesa tutti
camminavano allegramente verso l'avvenire, che i popoli deportati
avevano avuto il torto d'ingombrare un po' la circolazione sulla strada
superba del progresso, che gli uccisi erano completamente d'accordo
sulla loro eliminazione, che gli intellettuali si dichiaravano felici
del loro grazioso bavaglio perché era dialettico e che, infine, il
popolo era contento del suo proprio lavoro, perché se esso faceva, per
dei miserabili salari delle ore supplementari, lo faceva nel senso buono
della storia.
Ahimè! Lo stesso popolo ha preso la parola ed ha parlato a Berlino, in
Cecoslovacchia, a Poznan e in ultimo a Budapest. Ed in questa città,
contemporaneamente al popolo, gli intellettuali si sono strappati il
bavaglio. Ed entrambi, ad una sola voce, hanno detto che non si
camminava in avanti ma che si indietreggiava, che si era ucciso per
niente, deportato per niente, asservito per niente e che oramai per
essere sicuri di avanzare sulla buona strada era necessario dare a tutti
la verità e la libertà. Così, al primo grido dell'insurrezione in
Budapest libera, chilometri di falsi ragionamenti e di belle dottrine
ingannatrici di scienziati e di povere filosofie, sono stati ridotti in
polvere. E la verità nuda, così troppo tempo oltraggiata, è apparsa agli
occhi di tutti.
Dei padroni sprezzanti, che ignoravano persino di insultare la classe
operaia, ci avevano assicurato che il popolo facilmente faceva a meno
della libertà se soltanto gli si dava del pane. E lo stesso popolo
rispondeva loro improvvisamente che non aveva neppure il pane, ma anche
supponendo che ne avesse avuto, esso vorrebbe ancora qualchecosa di altro.
Perché non è un professore sapiente ma un fabbro di Budapest che
scriveva: "Io voglio che mi si consideri come un adulto che vuole e sa
pensare. Io voglio poter dire il mio pensiero senza aver niente da
temere e voglio che mi si ascolti anche".
Quanto agli intellettuali, ai quali era stato predicato ed urlato che
non vi era altra verità che quella che serviva gli obiettivi della
causa, ecco il giuramento che essi prestavano sulla tomba dei loro
compagni assassinati per la suddetta causa: "Mai più, neppure sotto la
minaccia e la tortura, né per un amore mal compreso della causa, dalle
nostre bocche non uscirà altro che la verità". (Tibor Meray sulla tomba
di Rajik).
L'Ungheria
come la Spagna
Dopo questo la causa è chiara: Questo popolo massacrato è nostro.
L'Ungheria sarà, oggi, per noi ciò che fu la Spagna venti anni fa. Le
sottili sfumature, gli artifici di parole, e le considerazioni sapienti
con le quali si cerca ancora di mascherare la verità, non ci
interessano. La concorrenza tra Rákosi e Kádár con la quale vogliono
intrattenerci, non ha importanza. Sono tutti e due della stessa razza.
Differiscono soltanto per i loro titoli di gloria di caccia e se quelli
di Rákosi sono più sanguinanti non lo saranno per molto tempo.
In ogni caso, o che sia l'uccisore o il perseguitato persecutore, non
cambia niente alla libertà dell'Ungheria. Mi dispiace a questo proposito
di dover ancora fare da Cassandra e di deludere le nuove speranze di
certi colleghi infaticabili, ma non c'è evoluzione possibile in una
società totalitaria. Il terrore non evolve, se non verso il peggio, la
forca non si liberalizza, la ghigliottina non è tollerante. In nessuna
parte del mondo si è visto un partito o un uomo che, disponendo del
potere assoluto, non ne abbia fatto un uso assoluto. Ciò che definisce
la società totalitaria di destra o di sinistra è innanzitutto il partito
unico ed il partito unico non ha nessuna ragione di auto-distruggersi. È
per questo che la sola società che deve conservare la nostra simpatia
sia critica che operante, è quella in cui vige la pluralità dei partiti.
Essa sola permette di denunciare l'ingiustizia ed il delitto, quindi di
correggerli. Essa sola, oggi, permette di denunciare la tortura,
l'ignobile tortura, abominevole tanto in Algeria quanto a Budapest.
Le tare dell'Occidente sono innumerevoli, i suoi delitti ed i suoi
errori sono reali. Ma, infine, non dimentichiamo che noi siamo i soli
detentori di quel potere di perfezionamento e d'emancipazione che
risiede nel libero pensiero. Non dimentichiamo che mentre la società
totalitaria, coi suoi stessi principi, obbliga l'amico a denunciare
l'amico, la società dell'Occidente, nonostante i suoi errori, produce
sempre quella razza d'uomini che conservano l'onore di vivere, voglio
dire la razza di coloro che tendono la mano allo stesso nemico per
salvarlo dal dolore o dalla morte.
Quando il ministro Chépilov, proveniente da Parigi osa scrivere che
"l'arte occidentale è destinata a squartare l'anima umana ed a formare
dei massacratori di ogni specie" è tempo di rispondergli che i nostri
artisti ed i nostri scrittori, almeno essi, non hanno mai massacrato
nessuno e che hanno abbastanza generosità per non accusare la teoria del
realismo socialista dei massacri coperti o ordinati da Chépilov e da
coloro che gli assomigliano.
La verità è che c'è posto per tutti, tra di noi, anche per il male, ed
anche per gli scrittori di Chépilov, ma anche per l'onore, per la via
libera del desiderio, per l'avventura dell'intelligenza. Mentre non c'è
posto per niente nella cultura staliniana, se non per i sermoni di
patronato, la vita grigia e il catechismo della propaganda. A coloro che
potevano ancora dubitarne, gli scrittori ungheresi gliel'hanno gridato
recentemente, prima di manifestare la loro scelta definitiva perché
preferiscono tacere, oggi, piuttosto che mentire per ordine.
La storia non può
giustificare il terrore
Non ci sarà facile essere degni di tanto sacrificio. Ma dobbiamo cercare
di esserlo, in un'Europa infine unita, dimenticando le nostre querele,
facendo giustizia dei nostri stessi errori, moltiplicando le nostre
creazioni e la nostra solidarietà.
A coloro, infine, che hanno voluto umiliarci e farci credere che la
storia poteva giustificare il terrore, rispondiamo con la nostra vera
fede, quella che noi condividiamo, ora noi lo sappiamo, con gli
scrittori ungheresi, polacchi ed anche, sì, con gli scrittori russi,
imbavagliati essi pure.
La nostra fede è che c'è, in cammino nel mondo, parallelamente alla
forza della costrizione e della morte che oscura la storia, una forza di
persuasione e di vita che si chiama cultura e che si fa nello stesso
tempo con la creazione libera ed il lavoro libero. Il nostro compito
quotidiano, la nostra lunga vocazione è di accrescere con il nostro
lavoro questa cultura e non di toglierle qualchecosa, sia pure
provvisoriamente. Ma il nostro dovere più fiero è di difendere
personalmente, e fino in fondo, contro la forza della costrizione e
della morte, da qualunque parte venga, la libertà di questa cultura,
cioè la libertà del lavoro e della creazione.
Gli operai e gli intellettuali ungheresi ai quali, oggi, siamo vicini
con tanto impotente dolore, hanno compreso questo e ce l'hanno fatto
capire meglio. Ecco perché se il loro dolore è il nostro, anche la loro
speranza ci appartiene. Nonostante la loro miseria, il loro esilio, le
loro catene, ci hanno lasciata un'eredità regale che noi dobbiamo
meritare: la libertà, che non hanno scelta, ma che in un sol giorno ci
hanno resa!
Albert Camus
Ripreso da "Volontà" n. 7, anno X, 1° aprile 1957
https://ponte.noblogs.org/2024/3867/la-liberta-che-ci-hanno-resa-di-albert-camus/
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