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(it) A-Rivista Anarchica n.289: Gli anarchici contro il fascismo (Pt.III)
From
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Date
Thu, 8 May 2003 11:15:41 +0200 (CEST)
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Gli anarchici contro il fascismo
1919-1945 (e oltre). Sulle barricate, in carcere, al confino, in
Spagna, nella clandestinità.
COATTI E BALDI
Nelle varie isole di confino gli anarchici costituirono una
vivace comunità, secondi per numero solo ai comunisti.
L’8 novembre 1926 fu pubblicato sulla "Gazzetta Ufficiale" il
decreto che istituiva il "Tribunale Speciale per la difesa dello
Stato" e le "Commssioni provinciali per l’assegnazione al
Confino di Polizia". Ma fin da prima di quel decreto molti
anarchici furono relegati su quelle isole sperdute nel
Mediterraneo che già erano state utilizzate alla fine dell’800
per tenervi raccolti (ed isolati dal mondo esterno) i
sovversivi.
Al confino, gli anarchici costituirono sempre un gruppo compatto
e battagliero, e seppero combattere la dittatura fascista anche
in quelle dure condizioni. Basti pensare alle condanne al
carcere subite da 152 confinati politici che nel 1933
organizzarono a Ponza le proteste contro i continui soprusi
della direzione della Colonia; numerosi, fra questi condannati,
gli anarchici (Failla, Grossuti, Bidoli, Dettori, ecc.). L’anno
successivo l’anarchico Messinese, confinato ad Ustica, prese a
schiaffi il direttore della Colonia che voleva obbligarlo a fare
il saluto romano. La ribellione contro simili soprusi si estese
progressivamente ad altre isole, in particolare a Ventotene ed a
Tremiti, portando a nuove condanne contro compagni nostri.
Uniti da stretti vincoli di solidarietà, gli anarchici
riuscirono a far giungere e circolare clandestinamente fra i
compagni alcuni testi anarchici e sostennero nel contempo vivaci
polemiche con gli altri confinati. Particolarmente tesi furono
sempre i rapporti fra confinati comunisti ed anarchici poiché i
primi, ligi alle direttive politiche provenienti dal Partito e
da Mosca, fecero sempre di tutto per ostacolare l’attività
politica dei libertari. Ad acutizzare questa polemica giunsero,
a partire dal 1936, le notizie dal fronte spagnolo, che, seppur
senza precisione, riferivano di scontri armati fra anarchici e
stalinisti.
Ribelli ad ogni autorità, gli anarchici tennero costantemente un
comportamento fiero e deciso, e furono sempre ritenuti i più
pericolosi e sediziosi dalle autorità del confino; questa
pessima (e meritata) fama presso le alte gerarchie fasciste fu
causa di nuove persecuzioni e condanne e spesso
dell’allungamento della pena di confino senza neppure una
parvenza di processo. Accadde così che alcuni compagni, pur
condannati inizialmente a pochi anni, dovettero restare sulle
isole fino al 1943, quando, con la caduta del fascismo in
luglio, esse furono "smobilitate".
Significativa al riguardo la liquidazione del confino di
Ventotene, dove era stato concentrato un numero elevato di
anarchici. Quando giunse la notizia della caduta del fascismo i
primi ad esser liberati furono i militanti di Giustizia e
Libertà, cattolici, repubblicani e testimoni di Geova; per cui
in un primo tempo rimasero a Ventotene solo comunisti,
socialisti e anarchici. Quando però il maresciallo Badoglio
chiamò al governo Roveda per i comunisti e Buozzi per i
socialisti, questi pretesero ed ottennero la liberazione dei
carcerati comunisti e socialisti, trascurando gli anarchici ed i
nazionalisti sloveni. Si ruppe così quel vincolo di solidarietà
che, al di là delle accese polemiche, aveva pur sempre legato le
varie comunità politiche di confinati di fronte al comune nemico
fascista. Nonostante alcuni militanti dei partiti di sinistra
cercassero di rifiutarsi di partire per non lasciar soli gli
anarchici, il grosso dei confinati se ne andò libero, noncurante
di quelli che erano costretti a restare sull’isola. Gli
anarchici, dopo una decina di giorni dalla partenza degli altri,
furono trasportati, per nave e poi in treno, fino al campo di
concentramento di Renicci d’Anghiari (Arezzo). Durante questo
lungo viaggio di trasferimento molti compagni cercarono di
fuggire, eludendo la stretta vigilanza di poliziotti e
carabinieri, ma solo uno riuscì nel suo intento. Appena giunti
nel campo gli anarchici ebbero a scontrarsi con le autorità e
due compagni nostri furono immediatamente segregati in cella;
questo diede l’avvio alle proteste ed alla continua agitazione
degli anarchici (fra i quali ricordiamo Alfonso Failla, la cui
testimonianza riportiamo qui di seguito) che giunsero a
scontrarsi violentemente con le forze dell’ordine del campo.
Successivamente, comunque, alcuni riuscirono a fuggire ed
andarono a costituire le prime bande partigiane delle zone
circostanti. Solo nel settembre le guardie se la squagliarono ed
i compagni lasciarono il campo, appena prima che arrivassero
tedeschi.
Camillo Levi
NEL CAMPO DI RENICCI
Nella testimonianza (tratta da "L’Agitazione del Sud", settembre
1966) di uno dei protagonisti delle lotte nelle isole di confino
e nelle carceri fasciste, la storia del campo di concentramento
di Renicci d’Anghiari, nel 1943.
Dopo il 25 luglio 1943 - data della caduta del fascismo - la
liberazione dei confinati politici che si trovavano in quella
data nell’isola di Ventotene ebbe inizio soltanto oltre due
settimane dopo che il governo Badoglio, rifacendosi alle
tradizioni dell’Italia borghese e monarchica, iniziò la
liberazione degli antifascisti incominciando, nell’ordine di
precedenza, dai moderati fino ai giellisti, repubblicani,
socialisti e comunisti.
Coerentemente ai contatti avuti e con gli impegni presi con i
vari partiti dello schieramento parlamentare tradizionale, noi
anarchici, esclusi dalla liberazione di fronte al progressivo
avanzare nel Sud degli eserciti angloamericani ... fummo invece
trasferiti al campo di concentramento di Renicci di Anghiari in
provincia di Arezzo.
Con noi furono pure esclusi dalla liberazione comunisti e
nazionalisti jugoslavi e albanesi ed alcuni antifascisti
italiani. C’imbarcarono intorno al 20 d’agosto su una corvetta
della regia marina non attrezzata al salvataggio di centinaia di
persone nel caso di un probabile attacco di sottomarini. Quando
la nave uscì dal porticciolo di Ventotene, prima di virare per
Gaeta, gridammo ripetutamente il nostro saluto al compagno Gino
Lucetti prigioniero nell’ergastolo dell’isola di Santo Stefano.
Dopo alcune ore di sosta a Gaeta, dove avemmo i primi saluti dal
compagno Salvatore Vellucci, dai suoi figli e da sua moglie,
incominciò il nostro viaggio verso il campo di concentramento.
Eravamo scortati da carabinieri ed agenti della PS.
Non eravamo ammanettati tanto che fu facile a parecchi compagni
tra i quali i fratelli Girolimetti, Giorlando, ecc. di evadere.
In tutte le stazioni improvvisammo comizi, affacciati dai
finestrini, incitando alla lotta radicale contro il fascismo ed
il nazismo. A Roma il nostro treno fu sballottato da una
stazione all’altra, si disse per proteggerci dai bombardamenti
aerei ma in realtà per impedire i nostri contatti con i compagni
romani e le nostre proteste per la nostra mancata liberazione.
Ricordo con dispiacere un tentativo di evasione del mio compagno
Arturo Messinese fallito per un casuale incontro con un gruppo
di nostri guardiani che rientravano in stazione dopo essersi
allontanati temporaneamente. Lungo tutto il viaggio, nelle soste
delle varie stazioni i nostri inviti alla lotta contro il
fascismo incontrarono lo stupore e l’indecisione popolare. Fu ad
Arezzo che notammo una diffusa e simpatica comprensione solidale
da parte di centinaia di persone che si trovavano in quella
stazione. Fu qui che vedemmo per l’ultima volta il compagno
Zambonini. Era stato un forte e deciso militante, ferito nella
guerra di Spagna ed ospite, con noi, nell’isola di Ventotene
durante la seconda guerra mondiale.
"Sparate vigliacchi!"
Alla partenza da Ventotene, di fronte alle nostre proteste per
la mancata liberazione c’era stato promesso che saremmo stati
liberati nei giorni seguenti, in terra ferma. Il compagno
Zambonini alla stazione di Arezzo si rifiutò di proseguire per
il campo di concentramento, perciò venne condotto in carcere.
Dopo, durante la resistenza, sarà fucilato dai nazifasciti nel
poligono di Reggio Emilia.
Arrivati, sull’imbrunire, alla stazione di Anghiari fummo
ricevuti da alcune centinaia di carabinieri e soldati ai quali
sentimmo distintamente rivolgere dai loro ufficiali l’ordine di
caricare le armi. Protestammo energicamente.
In un alterco con gli ufficiali che ci insolentivano minacciando
fucilazioni, i compagni Marcello Bianconi e Arturo Messinese
gridarono: "Sparate vigliacchi!". Perciò furono immediatamente
condotti in cella di sicurezza. Così ebbe inizio la nostra
agitazione contro il regime interno del campo di concentramento.
Questo era stato fino ad allora uno dei peggiori del genere. I
prigionieri erano in massima parte partigiani jugoslavi e con
essi erano centinaia di minorenni e ragazzi di pochi anni. Il
regime alimentare era stato sempre più scarso e pessimo;
centinaia di internati, specialmente bambini e ragazzi erano
morti a causa del pessimo trattamento. In cambio la sorveglianza
era feroce e bestiale. Guardavano i prigionieri centinaia di
soldati e carabinieri, richiamati, quest’ultimi, dalle regioni
Toscana e limitrofe. Il comandante in seconda, maggiore
Fiorenzuoli, ed il tenente Panzacchi si distinguevano per i loro
arbitrii. Era perfino proibito che gli internati delle varie
sezioni in cui era diviso il campo si avvicinassero alle reti
metalliche divisorie per conversare reciprocamente. Il mattino
seguente il nostro arrivo i nostri aguzzini fecero una
dimostrazione di forza. Le minacce degli ufficiali rivolte a noi
con lo spiegamento dei picchetti armati seguendo l’arresto dei
compagni Bianconi e Messinese volevano conseguire lo scopo di
intimidirci e renderci alla loro mercé. Costituivamo, insieme ai
compagni reduci dalle lotte combattute nell’esilio in Spagna,
l’aggrupamento più provato dalle lotte che in carcere e al
confino ci erano costate ulteriori condanne ad anni di carcere e
di confino supplementari, oltre che la vita di parecchi
compagni, per difendere la nostra dignità umana dagli arbitrii
della milizia e della polizia fasciste. E l’odore di polvere era
per noi un maggiore incentivo a non desistere dalla lotta
iniziata contro gli aguzzini del campo di concentramento di
Renicci di Anghiari. Reclamammo libertà di comunicazione tra i
prigionieri dei vari settori, la cessazione degli arbitrii
perpetrati specialmente dal tenente Panzacchi coadiuvato da
alcuni soldati come lui dichiaratamente fascisti. E il ritorno
tra noi dei compagni Bianconi e Messinese. Dopo alcuni giorni di
dure schermaglie il comandante del campo, il colonnello Pistone,
decise di togliere il divieto di intercomunicazione tra i
prigionieri dei vari raggi ed ai ragazzi fu raddoppiata la
razione alimentare che era costituita da qualche centinaio di
grammi di pane e di poca minestra, alternativamente di carota o
di patate non sbucciate e di acqua pompata direttamente dal
sottostante fiume Tevere, che provocava epidemie di coliti e
dissenteria.
I nostri rapporti con i custodi rischiarono di arrivare ad una
rottura tragica. Si pretendeva che all’appello mattutino noi si
fosse allineati militarmente e che uno di noi stessi, in
funzione di caporeparto, ci avesse contati e presentati
all’ufficiale di ispezione.
solidarietà internazionale
Continuammo per parecchi giorni a rifiutarci. Il nervosismo, tra
gli ufficiali specialmente, era al parossismo. Il compagno
Emilio Canzi, quando stavamo arrivando all’urto, intervenne. Ci
pregò di non formalizzarci e si assunse egli l’ingrato compito.
Così ci allineavamo alla meglio e gli ufficiali dal canto loro
accettarono il compromesso. Però gli occhi di Emilio Canzi, nel
presentarci senza formalità all’ufficiale lo superavano in
altezza morale molto più di quanto glielo consentiva la sua già
alta statura fisica.
Qualcuno, tra noi, masticava amaro sulla "incoerenza" di Emilio
Canzi che allora aveva già nella mente la costituzione dei primi
nuclei partigiani che nella sua nativa zona di Piacenza, sul
finire della guerra, costituivano un insieme di circa diecimila
uomini. Le migliaia di partigiani jugoslavi che popolavano il
campo, comunisti o nazionalisti, avevano fino allora conosciuto
gli italiani come aguzzini e fascisti e perciò erano animati da
profondo odio sciovinista antiitaliano nonostante che fossero
formalmente osservanti della disciplina al punto che nel
presentarsi ogni mattina sembravano un reparto delle stesse
truppe che ci tenevano prigionieri.
La nostra manifestazione di solidarietà internazionale, da essi
non richiesta, impresse uno spirito nuovo nel loro comportamento
e l’Italia da quel momento per essi non fu più soltanto la
patria del fascismo che li opprimeva ma anche di uomini
militanti nella lotta internazionalista per la libertà dei
popoli. Questo spirito internazionalista risorto dall’azione nei
cuori e nei canti si confuse anche nel sangue di due
prigionieri, uno slavo e un anarchico italiano, la sera del 9
settembre 1943. Quel giorno avevamo appreso che il fascismo con
l’aiuto di Hitler aveva ricostruito un governo Mussolini
nell’Italia centrosettentrionale. Noi ce ne accorgemmo per i
preparativi dei baldanzosi ufficiali e soldati fascisti che
ripresero il sopravvento sulla parte moderata del comando. In
tutte le sezioni del campo i prigionieri jugoslavi che noi
vedevamo ogni mattina allinearsi disciplinatamente si rivelarono
formazioni militari già preparate. Nei comizi che si tennero in
tutte le sezioni chiesero al comando militare le armi per
marciare contro i nazisti. Nella nostra sezione aveva la parola
vibrante Ganu Kriezju uno dei tre fratelli notabili albanesi che
dividevano con noi l’internamento a Ventotene. In quel momento
udii la cornetta del posto di guardia che chiamava il picchetto
armato, di corsa. Non dubitai che esso si sarebbe diretto prima
che altrove alla nostra sezione per l’odio che i fascisti
risentivano contro noi anarchici, ultimi arrivati. Mi diressi
perciò all’entrata per osservare ciò che stava per accadere, in
tempo per udire chiaramente l’ordine dato dal maggiore
Fiorenzuoli agli uomini del picchetto di caricare a salve e di
sparare subito dopo avere intimato seccamente agli internati
l’ordine di sciogliere il comizio e di ritirarsi nei cameroni.
Non tutti gli internati ebbero il tempo di rendersi conto di ciò
che accadeva. Subito dopo i primi spari di fucileria del
picchetto armato agli ordini di Fiorenzuoli seguirono quelli
incrociati delle mitragliatrici poste circolarmente sulle
torrette di guardia che cingevano il campo.
silenzio apparentemente disarmato
Prima di chiudere questo modesto ricordo dei numerosi compagni
che poi lasciarono la vita nella lotta contro il nazifascismo o
negli stenti derivati dai mali contratti nelle galere e nelle
isole di confino del regime fascista, voglio rievocare la
grandezza umana di un ufficiale di comando di Renicci di
Anghiari. Aveva in consegna una quarantina di noi per condurci
alla prefettura di Arezzo da dove avremmo dovuto essere
liberati.
In viaggio gli facemmo osservare che Arezzo era già nuovamente
in mano ai fascisti ed ai tedeschi e condurci là equivaleva a
portarci alla morte.
Quell’ufficiale, nelle quotidiane discussioni che facevamo
dimostrava idealità fasciste però era alieno da atti arbitrari
come quelli che erano cari al tenente Panzacchi, suo collega.
Alle nostre insistenze, arrivati in località S. Firenze pochi
chilometri prima di Arezzo ci fece scendere dal camion e,
chiamati in disparte chi scrive e Mario Perelli, ci consegnò
l’elenco del nostro gruppo dicendomi: "Voi siete responsabili di
questi uomini"! Quindi fece girare il camion e ritornò con i
soldati della scorta al campo. Era il tenente Rouep, fiorentino,
veniva dagli alpini.
Io e Perelli bruciammo il foglio. Quel gruppo di compagni si
sciolse e ciascuno si avviò in direzioni diverse verso tutte le
strade che ricordano vivi e morti, la loro presenza nella storia
vera della lotta per la libertà. Storia che deve sempre essere
"fatta" prima che gli altri, quelli che di solito scrivono e
sistemano arbitrariamente i fatti della storia, possano scrivere
la "storia" che non hanno "fatta".
E questo è un discorso che può anche essere valido in relazione
agli episodi che ho ricordato. Ed ai molti altri che restano da
ricordare.
Alfonso Failla
A - rivista anarchica
anno 33 n. 289
aprile 2003
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