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(it) A-Rivista Anarchica n.289: Gli anarchici contro il fascismo (Pt.I)

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Date Tue, 6 May 2003 19:12:28 +0200 (CEST)


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A - I N F O S N E W S S E R V I C E
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Gli anarchici contro il fascismo
1919-1945 (e oltre). Sulle barricate, in carcere, al confino, in
Spagna, nella clandestinità.

INSUSCETTIBILI DI RAVVEDIMENTO

L’opposizione degli anarchici al fascismo è stata istintiva e
immediata fin dal primo manifestarsi dei fasci di combattimento.
La controversa esperienza degli Arditi del Popolo. Il confino,
le carceri, l’esilio, la partecipazione alla rivoluzione
spagnola del ’36, la Resistenza armata contro i nazifascisti:
queste le tappe principali dell’impegno antifascista libertario.
I rapporti con le altre componenti dell’antifascismo organizzato.

Nel ’20 gli anarchici in Italia erano una forza rivoluzionaria
con cui si dovevano fare i conti, una forza con cui dovevano
fare i conti padroni, governo e fascisti. Essi avevano un
quotidiano, "Umanità Nova", che tirava cinquantamila copie e
numerosi periodici. L’USI, il sindacato rivoluzionario
influenzato dagli anarchici (segretario ne era l’anarchico
Armando Borghi), contava centinaia di migliaia di iscritti.

Dopo il fallimento dell’occupazione delle fabbriche, gli
anarchici, riconoscendo nel fascismo la "controrivoluzione
preventiva" (come la definì bene Luigi Fabbri) con cui i padroni
avrebbero cercato di impedire il ripetersi di una situazione
prerivoluzionaria, gettarono tutte le loro energie nella mischia
contro il giovane ma già robusto figlio del capitalismo. La
volontà ed il coraggio degli anarchici non poteva però bastare
di fronte allo squadrismo, potentemente dotato di mezzi e di
armi e spalleggiato dagli organi repressivi dello stato. Tanto
più che anarchici ed anarcosindacalisti erano presenti in modo
determinante solo in alcune località ed in alcuni settori produttivi.

politica disfattista

Purtroppo la politica disfattista del Partito Socialista e della
CGL che già aveva ostacolato lo sviluppo rivoluzionario e dunque
contribuito al fallimento dell’occupazione delle fabbriche,
seminò confusione ed incertezza nel movimento operaio in un
momento che già era per molti aspetti di riflusso delle lotte. E
questo proprio di fronte al moltiplicarsi ed aggravarsi delle
violenze fasciste, soprattutto dopo il ’21.

Ovunque in Italia le squadracce di Mussolini assaltavano le sedi
politiche, le redazioni, i militanti più attivi, tutto quanto
"puzzasse" di "sovversivo". Lo stato liberale fu diretto
complice sia delle attività criminali sia dell’intera strategia
politica del fascismo nella comune lotta contro la combattività
dei lavoratori.

Pur essendo essi stessi vittime delle violenze squadriste, i
socialisti si limitarono a denunciare le "illegalità" fasciste,
senza dedicare tutte le loro energie alla lotta popolare
rivoluzionaria contro il terrorismo padronale. Non solo, ma il
PSI giunse al punto di stipulare con i fascisti un Patto di
Pacificazione (agosto 1921) che contribuì a disarmare il
movimento operaio sia psicologicamente sia materialmente, nel
momento stesso in cui si intensificavano le violenze squadriste
(che continuarono a crescere... in barba al patto!).

Quello che ci interessa sottolineare è che, mentre i vertici
politici e sindacali invitavano alla "calma" e alla non
violenza, furono gli stessi lavoratori, organizzatisi
autonomamente, a dare alcune storiche lezioni ai fascisti. Le
insurrezioni di Sarzana (luglio ’21) e di Parma (agosto ’22)
sono due esempi della validità della linea politica sostenuta
dagli anarchici, allora, sulla stampa e nelle lotte: contro il
disfattismo delle burocrazie politico-sindacali, gli anarchici
sostenevano infatti l’urgente necessità di battere con la lotta
il movimento fascista, stimolando la combattività dei
lavoratori. Coerentemente con questo programma gli anarchici si
batterono sino in fondo senza quei tentennamenti e quella
ricerca di compromessi che caratterizzarono l’attività dei
socialisti. Significativa al riguardo la differente posizione
assunta da socialisti e comunisti da una parte ed anarchici
dall’altra, di fronte al movimento degli Arditi del Popolo.

gli arditi del popolo

Questo movimento, sorto nel 1920 per iniziativa di elementi
eterogenei, si sviluppò rapidamente assumendo caratteristiche
marcatamente antifasciste ed antiborghesi, e fu caratterizzato
da un marcato decentramento autonomo delle organizzazioni
locali. Gli Arditi del Popolo assunsero quindi colorazioni
politiche talvolta differenti da un posto all’altro, ma sempre
li accomunò la coscienza della necessità di organizzare il
popolo per resistere violentemente alla violenza delle camicie
nere. Gli anarchici aderirono entusiasticamente alle formazioni
degli Arditi e spesso ne furono i promotori individualmente o
collettivamente; per restare ai due episodi già accennati basti
pensare che in maggioranza anarchici furono i difensori di
Sarzana e che a Parma, fra le famose barricate erette per
resistere agli assalti delle squadracce di Balbo e Farinacci, ve
n’era una tenuta dagli anarchici.

Completamente diverso fu l’atteggiamento sia dei socialisti sia
dei comunisti (questi ultimi costituitisi in partito nel gennaio
1921). Nonostante la vasta e spontanea adesione di molti loro
militanti agli Arditi del Popolo, entrambe le burocrazie
partitiche presero le distanze e cercarono di sabotare lo
sviluppo di quel movimento. Gli organi centrali del neonato
PCd’I giunsero al punto di imporre ai propri iscritti di evitare
qualsiasi contatto con gli Arditi, contro i quali fu imbastita
anche una campagna di stampa a base di falsità e di calunnie.
Intervistato negli anni settanta alla televisione il comunista
Umberto Terracini cercava ancora di giustificare quella scelta
politica. E ancora oggi noi, come già ottant’anni fa i nostri
compagni, vediamo proprio in quella scelta un esempio tipico
della volontà comunista di subordinare la lotta antifascista
alla coincidenza con le proprie mire di egemonia sul movimento
operaio. È evidente che questa dura critica alla politica dei
vertici dei partiti di sinistra di fronte alle violenze fasciste
non coinvolge i militanti di base, che - anche se su posizioni
da noi molto differenti - dettero il loro contributo di lotta e
di sangue alla lotta contro il fascismo.

Il disfattismo socialista ed il settarismo comunista resero
impossibile una opposizione armata generalizzata e perciò
efficace al fascismo ed i singoli episodi di resistenza popolare
non poterono unificarsi in una strategia vincente.

il confino e l’esilio

Gli anarchici che, in prima fila nella resistenza al fascismo,
si erano esposti generosamente senza calcoli personali o di
partito, subirono più duramente degli altri antifascisti (in
proporzione alle forze) le violenze squadriste prima e quelle
legali poi. All’incendio delle sedi anarchiche e delle sezioni
USI, alle devastazioni di tipografie e redazioni, agli
ammazzamenti, seguirono i sequestri, gli arresti, il confino...
Ai superstiti, perseguitati, disoccupati, provocati, spiati, non
restava che la via dell’esilio. Si può dire che nel ventennio
fascista ben pochi militanti anarchici (esclusi gli incarcerati
ed i confinati) rimasero in Italia e quei pochi guardati a vista
ed impossibilitati per lo più anche a svolgere attività
clandestina.

Continuano singoli episodi di ribellione a testimoniare,
nonostante tutto, l’indomabilità dello spirito libertario.
Bastano alcuni esempi.

Il 21 ottobre 1928, l’anarchico Pasquale Bulzamini, a Viareggio,
mentre rincasa, viene aggredito da un gruppo di fascisti e
ferocemente bastonato. In un caffè, aveva poco prima, deplorato
la fucilazione dell’antifascista Della Maggiora. Muore tre
giorni dopo, all’ospedale.

Il 7 ottobre 1930, il compagno Giovanni Covolcoli spara contro
il Podestà e il segretario del suo paese - Villasanta (Milano) -
che lo hanno a lungo perseguitato fino a farlo internare nel
manicomio. Riconosciuto sano di mente e rilasciato in libertà,
ha voluto vendicarsi contro i suoi tenaci persecutori.

Nell’aprile del 1931, a La Spezia, il giovane anarchico Doro
Raspolini spara alcuni colpi di rivoltella contro l’industriale
fascista De Biasi per vendicarsi contro uno dei maggiori
responsabili dell’assassinio di suo padre, Dante, attivo
anarchico, massacrato nel 1921 a Sarzana colpito da innumerevoli
revolverate e da 12 colpi di pugnale e quindi - legato ancor
prima che morisse ad un’automobile - così trascinato per diversi
chilometri). Doro Raspolini muore nelle carceri di Sarzana in
conseguenza delle sofferenze e torture inflittegli dai fascisti.

Il 16 aprile 1931, i compagni Schicchi, Renda e Gramignano
vengono condannati dal Tribunale Speciale, a Roma,
rispettivamente ad anni 10, 8 e 6 di reclusione. Erano imputati
di essere rientrati dall’estero per svolgere attività contro il
fascismo.

la Resistenza

Il ’43 vede dunque gli anarchici della generazione prefascista
sparsi tra esilio, confino e galere. Poche tracce sono rimaste
dell’influenza anarchica ed anarcosindacalista. I pochi
militanti liberi dapprima e gli ex confinati poi riprendono con
immutato vigore i loro posti di combattimento, chi nella lotta
armata, chi nell’organizzazione della resistenza operaia, chi
nella propaganda clandestina al nord e semiclandestina al sud
nelle zone "liberate" (si fa per dire), dove gli alleati non
concedono la libertà di stampa agli anarchici, preoccupati
(giustamente dal loro punto di vista) che la lotta antitedesca
ed antifascista potesse diventare rivoluzione sociale.

Per quanto riguarda la partecipazione degli anarchici alla lotta
armata partigiana, essa avvenne per lo più all’interno di
formazioni politicamente miste. Solo in quelle poche località in
cui la presenza di anarchici e simpatizzanti era nonostante
tutto sufficientemente numerosa, i compagni organizzarono
formazioni proprie, inquadrate però anch’esse, spesso a seconda
della situazione locale, nelle divisioni Garibaldi (controllate
dai comunisti) Matteotti (socialiste) e Giustizia e Libertà
(espressione dei "liberalsocialisti" del Partito d’Azione).

La mancata autonomia (che quasi sempre, dati i rapporti di
forza, significò dipendenza) dalle formazioni partigiane
partitiche fu dovuta non solo alla quasi generale esiguità
numerica del superstite movimento anarchico, ma anche al fatto
che gli alleati si rifiutavano (sempre giustamente, dal loro
punto di vista) di rifornire di armi e munizioni le formazioni
anarchiche.

In questo contesto il valore e spesso l’estremo sacrificio di
tanti anarchici furono sfruttati da altre forze politiche e
poterono così servire ben poco alla radicalizzazione
rivoluzionaria del movimento partigiano. Scarsa risultò in
definitiva l’influenza politica anarchica nella Resistenza, che
venne incanalata dai partiti antifascisti (dai liberali ai
comunisti) verso quella restaurazione "democratica borghese" che
è ancora oggi sotto i nostri occhi.

Paolo Finzi


A - rivista anarchica
anno 33 n. 289
aprile 2003

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