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(it) Slaicobas: referendum 15 giugno
From
worker-a-infos-it@ainfos.ca (Flow System)
Date
Thu, 12 Jun 2003 09:38:18 +0200 (CEST)
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A - I N F O S N E W S S E R V I C E
http://www.ainfos.ca/
http://ainfos.ca/index24.html
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Da: slaicobasmilano <slaicobasmilano@libero.it>
15 giugno, referendum sull'art. 18: chi invita all'astensione o
a votare no, vuole ridurre i diritti di tutti i lavoratori.
Per difendere le condizioni di lavoro e i diritti di tutti i
lavoratori, è necessario votare SÌ al referendum del 15 giugno.
I lavoratori, tutti i lavoratori, hanno dei buoni motivi per
votare SÌ. Noi non siamo stati tra i sostenitori di questo
referendum, riteniamo ancora profondamente sbagliati i tempi e i
modi con cui è stato promosso e abbiamo pure molte riserve sul
metodo referendario. Ma la situazione politica creatasi impone
che, senza indugio, il 15 giugno si debba votare SÌ. Questa è
una condizione necessaria, anche se da sola non sufficiente, per
contrastare l'attacco governativo e padronale in corso e per
creare rapporti di forza migliori per organizzare la difesa di
tutti i lavoratori, anche di quelli privi totalmente di diritti,
come gli "interinali", i "tempo determinato", i "Co. Co. Co.
(collaborazione coordinata continuativa", gli apprendisti ...
Estendere i diritti rafforza TUTTI i lavoratori
L'estensione dell'art. 18 anche nelle aziende di sotto dei 15
dipendenti (5 nel settore agricolo), non è solamente un problema
di giustizia "astratta", di diritto, di equità, di applicazione
a tutti della stessa legge. Il diritto al reintegro nel posto di
lavoro in caso di licenziamento senza giusta causa anche in
queste aziende è nell'interesse di tutti i lavoratori. Quanto
più i diritti sono estesi e assumono la forma di leggi esigibili
da chiunque, tanto più le condizioni salariali e normative di
tutti i lavoratori sono migliori.
Un lavoratore con pochi o nessun diritto, è un lavoratore pagato
di meno, che non può organizzarsi sindacalmente, non può
rivendicare diritti minimali (maternità, ferie, straordinari in
busta paga, .... pur se sanciti per legge), non può
salvaguardare la propria salute (immaginatelo che richiede
l'applicazione della legge 626 o l'intervento dell'ASL), non può
difendere la propria dignità umana (molestie sessuali, ...). Il
fatto che esista una consistente quota di lavoratori (circa 3
milioni) che non possono "godere" di tutto questo, seppur
assunti a tempo indeterminato (quindi costretti per tutta la
vita all'arbitrio padronale), ha un effetto "deprimente" sulle
condizioni salariali e normative di tutti i lavoratori.
L'obiettivo di governo e padronato è quello di ridurre i diritti
(e i salari) a tutti i lavoratori e di portarli il più possibile
allo stesso livello dei lavoratori con pochi o, addirittura,
nessun diritto. Tutte le leggi per "flessibilizzare" il lavoro,
dal "pacchetto Treu" del Centro Sinistra all'odierno "libro
bianco" di Maroni, sono finalizzate a levare diritti
contrattuali e individuali per ridurre il costo del lavoro. I
diritti, infatti, sono sia un "costo" per i padroni, una quota
di salario che si vuole eliminare per conservare i profitti, sia
uno strumento fondamentale per difendere la propria dignità
umana individuale nei posti di lavoro e la base per garantire al
meglio le condizioni collettive.
Se i lavoratori a tempo indeterminato, a tempo determinato,
interinali, Co.Co.Co., apprendisti, ... godessero degli stessi
diritti, anche indipendentemente dalla razza e dalla
nazionalità, tutti i lavoratori ne sarebbero rafforzati e
potrebbero difendersi meglio; perché se così fosse le condizioni
di lavoro sarebbero levate all'arbitrio padronale, alla loro
determinazione sulla base del rapporto individuale tra
lavoratore e padrone, dove il primo è perdente e sconfitto in
partenza, senza appello.
L'estensione dei diritti minimali è, quindi, un obiettivo
nell'interesse di tutti i lavoratori, e nella situazione
politica attuale ci è imposto di schierarci e di votare al
referendum del 15 giugno. I lavoratori hanno un'unica scelta per
difendere i propri interessi, ed è quella di votare SÌ.
Padroni e governo: cancellare tutti i diritti, diminuire i
salari
Il 15 giugno non è in ballo solo un pronunciamento
sull'estensione dell'art. 18 nelle aziende al di sotto dei 15
dipendenti. Governo e padroni vogliono usare la scadenza per
sancire un consenso sociale alla controriforma dei rapporti di
lavoro che vuole introdurre il "libro bianco" di Maroni. Il
mancato raggiungimento del quorum o, peggio, la vittoria del NO
al referendum, sarebbero subito usati per giustificare
l'introduzione delle misure previste dalle "leggi delega" in
discussione al Parlamento (prima fra tutte la sospensione
dell'art. 18 per i neo assunti nelle aziende dove già si
applica), sostenendo che dietro di esse vi è la volontà della
maggioranza degli italiani.
Governo e padroni vogliono ottenere questa sanzione, pensando in
questo modo di azzerare la protesta sociale contro la modifica
dell'art. 18 che nei mesi scorsi si è espressa in massa nelle
piazze. Il loro obiettivo è quello di usare il referendum quale
trampolino di lancio per azzerare tutti i diritti, di tutti i
lavoratori.
L'attacco ai diritti è una precondizione per l'ulteriore
estensione della flessibilizzazione dei lavori e per la
diminuzione dei salari. Il governo e la Confindustria puntano a
scardinare i meccanismi contrattuali esistenti per ottenere un
generale abbassamento dei livelli salariali (diretti e
indiretti). Come scritto nel programma elettorale del governo
Berlusconi, il fine è quello di sbarazzarsi dei vari livelli
contrattuali e dell'attuale legislazione del lavoro per
introdurre la "libera contrattazione tra datore di lavoro e
lavoratore", ossia per reintrodurre l'arbitrio padronale in
tutti i posti di lavoro.
Tutti i lavoratori, per contrastare questo disegno, devono
necessariamente votare SÌ il 15 giugno. Il mancato
raggiungimento del quorum o, peggio, la vittoria del no,
sarebbero il preludio di un inasprimento dell'attacco in corso
su diritti, salari e pensioni.
L'estensione dell'art. 18 aumenta la disoccupazione?
La campagna contro i lavoratori è in pieno svolgimento. La
Confindustria richiede a gran voce "l'ammodernamento" della
legislazione del lavoro e il suo presidente D'Amato si lamenta
della lentezza con cui il governo procede nelle "riforme" (ossia
nell'approvazione delle leggi delega sul mercato del lavoro e
nell'ulteriore riduzione delle pensioni).
I settori padronali più direttamente interessati ad impedire
l'affermazione del SÌ al referendum hanno addirittura costituito
un "Comitato per il NO", che si è impegnato in un'offensiva
"terroristica" su quelli che sarebbero gli effetti di
un'estensione del diritto al reintegro nel posto di lavoro in
caso di licenziamento senza giusta causa.
Billè, presidente della CNA, capofila del Comitato per il NO, ha
sostenuto che una vittoria del SÌ porterebbe alla perdita di
100.000 posti di lavoro. Il ministro del Welfare Roberto Maroni
continua a sostenere che un tale risultato renderebbe più
difficile combattere la disoccupazione. L'argomentazione è
sempre la stessa, usata sia dal Centro Sinistra per giustificare
il pacchetto Treu, sia dal Centro Destra per legittimare la
controriforma Maroni: con queste misure si aumenta
l'occupazione. Per estensione, la vittoria del SÌ al referendum
impedirebbe questo risultato.
Innanzitutto non si capisce bene perchè se vincesse il SÌ
immediatamente ci sarebbero 100.000 licenziamenti. Chi ha
assunto questi lavoratori non ne avrebbe più bisogno? Se non ne
ha bisogno, perchè mai non li licenzia oggi, quando potrebbe
farlo tranquillamente poiché nella sua azienda non si applica
l'art. 18? Simili argomentazioni non hanno alcun valore, ma sono
fatte circolare e presentate come vere solo perché dette in
televisione, a trasmissioni cui non sono chiamati mai a parlare
i lavoratori che subiscono quotidianamente la tragedia della
mancanza di diritti.
Neppure si capisce perché se vincesse il SÌ sarebbe più
difficile "combattere" la disoccupazione. Probabilmente si vuole
dire che se il referendum avesse questo esito i padroni
sarebbero meno propensi ad assumere? Se stiamo parlando di
un'esigenza concreta, dettata dal ciclo economico, si dice una
stupidaggine. Un datore di lavoro assume perché si amplia il
ciclo produttivo e ha bisogno di più dipendenti per seguirlo e
reggere la concorrenza. Quindi il referendum non c'entra nulla.
Se invece diciamo che un padrone preferisce assumere lavoratori
senza diritti, per ottenere più profitti e poter fare il bello e
cattivo tempo con tutti i dipendenti senza alcun problema o
contestazione, allora stiamo dicendo le cose come stanno, senza
maschere.
Infine va sfatato il cuore dell'argomentazione padronale e
governativa, l'aumento dell'occupazione. Questa non aumenta
grazie a qualche legge, anche se viene promesso in fase di
campagna elettorale, ma solo ed esclusivamente se il ciclo
economico è in fase ascendente. Questo non avviene da tempo e le
misure del pacchetto Treu non hanno aumentato l'occupazione, nè
quelle delle leggi delega di Maroni lo faranno. Queste leggi
favoriscono un travaso del lavoro da delle condizioni
maggiormente garantite a nuove condizioni meno garantite e
"sicure". La flessibilizzazione sempre più forsennata di questi
anni non ha significativamente aumentato l'occupazione totale,
l'ha trasferita dalle condizioni "tipiche" a quelle "atipiche".
Per tanti neo assunti con contratti a termine, Co.Co.Co., ... ci
sono stati più o meno altrettanti licenziati, cassaintegrati ed
espulsi nelle grandi fabbriche. La cosiddetta base occupazionale
non aumenta in modo significativo da tempo e non lo farà nel
prossimo futuro.
L'aumento dell'occupazione è uno specchietto per le allodole,
che sta tragicamente sperimentando sia chi è espulso dal lavoro,
sia chi è assunto nelle forme "atipiche".
Un vasto fronte contro i lavoratori il 15 giugno
Non sono solo il governo Berlusconi e il padronato, però, non
vogliono l'estensione dell'art. 18. La gran maggioranza
dell'Ulivo è anch'essa schierata contro, come pure Cisl e Uil.
Non deve stupire che le argomentazioni sono le stesse. Qualche
esempio?
Violante, presidente dei deputati DS, sostiene che l'estensione
dell'art. 18 sarebbe "un duro colpo per il mondo imprenditoriale
italiano". L'ex ministro Visco è per il no, come pure Rutelli e
Castagnetti della Margherita. Quest'ultimo ha anche sostenuto:
"Un commerciante o un artigiano che ha un dipendente è
imprenditore ma insieme anche lavoratore. Non possiamo
complicargli la vita". Evidentemente, diciamo noi, poco importa
che l'intera esistenza di un lavoratore sia dannatamente
complicata dalla totale assenza di diritti esigibili nel posto
di lavoro.
Ma non basta, Enrico Letta, economista della Margherita, in un
convegno organizzato dal giornale "Il Riformista" (organo di
D'Alema) ha enunciato con chiarezza la posizione dell'Ulivo
sull'art.18: va cancellato per tutti e sostituito con una nuova
legge che sostituisca il reintegro con l'indennizzo e diffonda
l'arbitrato al posto del ricorso alla magistratura. Quando da
più parti dell'Ulivo si dice che il referendum sarebbe
controproducente, l'obiettivo reale, al di là delle parole e
delle giustificazioni, è questo. A tale scelta si è infine
accodato lo stesso Cofferati, dopo aver costruito la propria
immagine sulla "difesa dei diritti" e sulla manifestazione dei
tre milioni a Roma in difesa ... dell'art. 18.
Sarebbero questi i difensori dei lavoratori contro il Centro
Destra di Berlusconi? Tutti i lavoratori devono ben meditare a
proposito, e non delegare a nessuno la difesa dei propri
interessi.
I limiti del referendum e dei suoi promotori
Abbiamo anticipato all'inizio le nostre perplessità su questo
referendum. I suoi promotori lo presentano come una sorta di
"sbocco politico" del movimento di massa sceso in piazza l'anno
scorso per difendere l'art. 18.
Se così fosse vorrebbe dire che è tutt'ora in piedi un movimento
di resistenza, in grado effettivamente di influenzare tutte le
classi sociali nelle votazioni, a prescindere dal consenso
elettorale di cui godono il Centro Destra e la maggioranza
dell'Ulivo, entrambi contro l'ampliamento dell'art. 18.
In realtà, oggi, quel movimento non è in piazza e non ha fatto
un percorso tale da rendere certo il passaggio dalla difesa
all'offensiva per l'estensione a tutti delle garanzie previste
dall'art. 18. Non siamo certo in presenza di una situazione di
lotte sociali così vaste e diffuse da obbligare con la
mobilitazione il Parlamento ad approvare leggi maggiormente
favorevoli ai lavoratori, come avvenne con lo Statuto dei
Lavoratori (di cui fa parte l'art. 18) imposto dalle lotte
operaie del 1969-1970.
La scelta referendaria rischia, per un errore di calcolo nei
tempi e nei modi, di condurre ad una sconfitta simile a quella
fatta dall'allora PCI e dai sindacati con il referendum sulla
"scala mobile". In quell'occasione il movimento di piazza venne
dirottato sul terreno elettorale e perse nel confronto tra tutte
le classi, tra i "cittadini"; in quest'occasione il referendum è
sostitutivo della mobilitazione di massa e presenta come unico
fine possibile alle lotte operaie e proletarie il confronto
elettorale.
Quando sarebbe necessario organizzare una lotta continuativa in
tutti i posti di lavoro per difendere i diritti, per contrastare
le leggi delega sul mercato del lavoro (i cui lavori procedono
tranquillamente in Parlamento), per gettare le basi di una
futura offensiva in termini di condizioni di lavoro e di
diritti, il principale se non l'unico orizzonte proposto è
quello di una scadenza elettorale, cui sono chiamati a votare
"tutti" (quindi anche i padroni) sui diritti dei lavoratori.
Per noi è stato un errore promuovere questo referendum, la lotta
reale e concreta dei lavoratori non si può sostituire con le
consultazioni elettorali, nè si può far finta che ci sia se
invece non c'è. Per questo non abbiamo partecipato al Comitato
per il SÌ e non abbiamo raccolto le firme.
Ma oggi il referendum c'è e lo scontro politico sul tema dei
diritti ci è imposto da quanti vogliono levarli a tutti i
lavoratori. Nell'attuale situazione la mancanza del quorum al 15
giugno, o peggio, la vittoria del NO, farebbero da battistrada
alla cancellazione per tutti dell'art. 18 e ad un successivo
attacco ancora più virulento ai diritti e alle condizioni dei
lavoratori.
Per questo occorre votare SÌ al referendum del 15 giugno
Indubbiamente questo non basta. Occorre organizzarsi in tutti i
posti di lavoro per contrastare le leggi delega sul mercato del
lavoro, le esternalizzazioni, il furto del TFR e l'annunciata
ennesima riduzione delle pensioni, i contratti a perdere che ci
sono imposti, i licenziamenti che continuano nelle grandi
fabbriche. Ma anche tutto questo sarà più difficile se non ci
sarà uno "scatto d'orgoglio" il giorno del referendum, se i
lavoratori non parteciperanno in gran numero dando il segnale
che hanno compreso che in gioco non è solamente l'estensione
dell'art. 18, ma la difesa delle condizioni di tutti, che non
accettano l'arbitrio padronale quale stile di vita all'interno
dei posti di lavoro.
Slai Cobas
Sindacato dei Lavoratori Autorganizzati Intercategoriale
Coordinamento Provinciale di Milano - Viale Liguria 49, 20143
Milano, tel. fax. 02.8392117
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fip 4.6.2003
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