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(it) Umanità Nova n. 2 - La Corea alza la posta
From
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Date
Mon, 20 Jan 2003 10:35:59 -0500 (EST)
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Da "Umanità Nova" n. 2 del 19 gennaio 2003
La Corea alza la posta
Bush, per il momento, non va a vedere le carte
La recente minaccia della Corea del nord di denunciare il Trattato
di non proliferazione nucleare, negandosi pertanto alle ispezioni
rituali dell'agenzia di controllo IAEA di Vienna, si inserisce in
una partita complessa che ha per posta in palio la sopravvivenza
dell'ultimo regime "totalitario" di un'era bipolare spazzata via
alla fine del secolo scorso. La paziente reazione Usa alla
reiterazione degli annunciati programmi di proliferazione nucleare e
di costruzione di armi di distruzione di massa da parte del governo
nordcoreano suona strana se si considera come il pericolo nucleare
acclarato sia senza dubbio maggiore rispetto a quello supposto
iracheno, mentre entrambi i paesi sono stati inseriti nella lista
nera di Bush quali "rogue states" (in quell'"Axis of evil"
unitamente all'Iran e allo Yemen), e quindi entrambi sono nel mirino
di una possibile "pre-emptive war" unilaterale in quanto
"terroristi" per definizione assiomatica di un "parlante" in una
neolingua orwelliana che incute terrore al di sopra della stessa
pseudo-legge del "Washington Consensus".
Se ciò non accade non è solo perché difficilmente gli Usa potrebbero
reggere due grandi fronti di guerra, di cui uno a rischio nucleare,
appunto, senza mettere in pericolo se stessi, gli equilibri globali
e la sicurezza dei propri alleati in Estremo oriente. Proprio di
questo si fa forte il leader nordocoreano Kim Jong il, il cui
calcolo è di una semplicità "disarmante" (sulla pelle della propria
popolazione affamata, tuttavia): da anni la Corea del nord viene
additata come un regime ostile alle democrazie vincenti nel pianeta,
e ciò ha creato un senso di frustrazione e di accerchiamento (dal
1955 al 1991 gli Usa hanno tenuto una forza di deterrenza nucleare
in suolo sudcoreano al confine del 38deg. parallelo), accresciuto
quando il panorama storico ha decretato il collasso dei suoi alleati
storici, prima l'Unione sovietica e poi la Cina maoista. Mentre la
riunificazione con la Corea del sud procede a rilento, i "padroni
del mondo" prendono in considerazione solo due vie per tenere in
conto altre forme organizzative delle nazioni: la rapina, in proprio
o appaltata alle istituzioni finanziarie internazionali, Fondo
monetario e World Bank in primis (ne sanno qualcosa i paesi dell'est
europeo e la stessa Russia), o il terrore della guerra duratura,
della militarizzazione permanente della terra, della
sovradeterminazione eteronoma dei regimi nazionali secondo i gusti
dell'iperpotenza globale. In tale ottica, anche senza voler
considerare l'impossibile buona fede del figliolo erede di Kim ll
Sung, padre fondatore della nazione nonché dittatore di prim'ordine,
le riforme per alleviare l'affamamento della popolazione hanno
necessità di aiuti e di capitali che non accorrono
disinteressatamente verso un paese bisognoso. In qualche modo,
l'attuale leadership ha espresso una volontà di mimare il modello
cinese con l'instaurazione di zone di libero mercato per l'accesso
di capitali stranieri a Rajin-Sanbong, Sinuiju e Kaesong, senza però
l'equivalente successo delle Zone di libero scambio di Zhenzhen e
Shangai, di allentare la morsa del controllo statale sui salari e
sulla "libertà" dei consumi e degli investimenti privati, di
cominciare a stornare risorse budgetarie dal settore militare a
quello sociale, con una apprezzabile crescita annua del Pil del
3.7%, e ciò senza la "consulenza" delle agenzie internazionali
(eresia che costituisce un peccato da far pagare caramente).
Da qui la mossa del ricatto nucleare nel duplice intento di
sintonizzarsi con l'unico linguaggio comprensibile, la forza delle
armi, per usarlo quindi come mezzo di scambio, e di possedere
tecnologie spendibili nel mercato delle armi di distruzione di massa
(partner in prima fila: il Pakistan, che vende tecnologia militare e
compra tecnologia missilistica, forse il Sudafrica, lo Yemen, mentre
il principale fornitore di tecnologie sembra essere la Cina). Del
resto, gli stessi Stati Uniti sono i primi a non aver ratificato il
Trattato che vieta i test nucleari (ratificato invece da Mosca), a
"difendersi" con 9mila testate, a perseguire il controllo dello
spazio attraverso la sua militarizzazione, a usare armi chimiche e
ad uranio impoverito già vietate dalla IV Convenzione di Ginevra del
1949, e quindi si pongono di gran lunga in testa agli stati
terroristi nucleari. A questo si aggiunga la destabilizzazione di
un'area cruciale per gli equilibri mondiali perché orbitanti intorno
al Giappone, alleato cinquantennale degli Usa, alla Cina, futura
rivale per l'egemonia planetaria, e alla Russia indebolita ma non
irrilevante.
La reazione prudente americana, tutta tesa ad un atterraggio morbido
dell'impatto di tale uscita dal club del nucleare autocontrollato
dall'agenzia apposita sopra citata, che fornisce altresì parte degli
ispettori attualmente al lavoro in Iraq, si ispira ad una mediazione
multilaterale (per ora escludendo l'Onu e la stessa Aiea) che mira a
isolare la Corea del nord senza sprecare un dollaro per salvare
milioni di vite affamate dalle politiche di sterminio del regime e
dalla logica di mercato capitalista che penalizza chi non può
accedervi senza il medium del denaro. Resasi poco praticabile la
risposta militare, a meno che la ventilata ipotesi di slittare
l'attacco a Saddam non nasconda un repentino riorientamento della
coalizione internazionale contro il terrorismo (ma non è facile
spostare centomila uomini di notte senza farlo vedere a nessuno), la
diplomazia è al lavoro con il classico metodo del bastone e della
carota: da un lato, aiuti, già concordati da Clinton nel giugno 1994
grazie alla mediazione dell'ex-presidente Carter, ma mai interamente
decollati e sospesi da Bush l'anno scorso (una sorta di programma
umanitario "uranium for food" - ossia congelamento del programma
nucleare "indigeno", mai attuato del tutto, e aiuti esteri in
alimenti e in trasferimento di tecnologie per infrastrutture civili,
quali due centrali nucleari ad acqua leggera a fini di produzione di
energia elettrica, ad esempio, una sola delle quali iniziata appena
nell'agosto scorso - il cui tempo di verifica scade appunto nel
2003), e dall'altro (ipotetico) ricorso (futuro) al conflitto armato
preceduto dalle immancabili sanzioni economiche e dal blocco dei
rifornimenti di combustibile (che equivarrebbero ad una
dichiarazione di guerra, per bocca della stessa leadership
nordcoreana). La Corea reagisce così con l'altrettanto classico
metodo del dolce-amaro: dichiarazioni rassicuranti altalenate con
affermazioni bellicose.
Il va-e-vieni di politici americani dallo scorso ottobre ad oggi,
unitamente a diplomatici cinesi, giapponesi e russi, indica come la
situazione sia sotto controllo dal punto di vista di una realistica
escalation militare e quindi nucleare, in un'area del pianeta
densamente popolata. Ad oggi non esistono segnali di avventure
militari (nucleari o meno) nella penisola coreana, né d'altronde
risulta che ad oggi la Corea del Nord abbia effettuato test
nucleari, come invece hanno fatto potenze di recente ingresso in
quell'esclusivo club (India, Pakistan, Sudafrica, Israele). Non è un
caso che addirittura Washington ha tenuto per un paio di settimane
all'oscuro il paese, inducendo anche le altre capitali interessate a
mantenere temporaneamente il segreto ai media (sino al 16 di
ottobre), in relazione agli intenti dichiarati del regime
nordcoreano sulla proliferazione nucleare, acquisiti da una
delegazione parlamentare americana ai primi di ottobre (dal 3 al 5
u. s., otto deputati guidati dal sottosegretario di stato James
Kelly che consegnò in tale occasione un ultimatum al presidente
nordcoreano in merito all'acquisizione, forse dal Pakistan, di
tecnologie d'alluminio rafforzato per centrali a gas al fine di
produrre, non plutonio per reattori nucleari, bensì uranio
impoverito, procedura nota alle forze armate statunitensi e della
Nato di cui serbare gelosamente il monopolio), per consentire
all'amministrazione Bush di acquisire il consenso del Congresso alle
iniziative contro l'Iraq (della vicenda coreana, i deputati sono
stati avvertiti prima degli altri ma solo dopo aver votato il
decreto presidenziale sul ricorso alla guerra con l'Iraq), a
inserire il tema nell'agenda di discussione col presidente cinese
Jiang Zemin (in visita negli States il successivo 25), a non
disturbare la campagna delle presidenziali in Sudcorea (fine
ottobre) e delle politiche in Pakistan (l'11).
Tutt'altro stile rispetto alla pantomima in sede Onu per le supposte
armi di distruzione di massa detenute dall'altro dittatore Saddam
Hussein. Il dilemma per Bush è tagliente: se riesce nella penisola
coreana la via diplomatica multilaterale (con o senza Onu), si
delegittima la via militare per il contenzioso iracheno, mentre se
fallisce, perseguire la seconda in contemporanea con la guerra al
terrorismo iracheno diventa un azzardo politico e militare di
conseguenze strategiche potenzialmente disastrose per gli Usa.
Evitare il dilemma significa incoraggiare Mosca e Pechino a
ridiventare protagonisti di una vicenda di livello planetario
rafforzandone il ruolo di primo piano in seno al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, che dovrà dare il via libera contro
Saddam con il loro consenso ad un prezzo prevedibilmente più alto
per Bush.
Salvo Vaccaro
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