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(it) Umanità Nova n.2 - Operazione Babilonia/2

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Date Mon, 20 Jan 2003 08:33:18 -0500 (EST)


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Da "Umanità Nova" n. 2 del 19 gennaio 2003

Operazione Babilonia/2
Il petrolio come arma politica


Pubblichiamo la seconda parte del lungo saggio di Giacomo Catrame
dedicato al contesto geopolitico in cui si inserisce la guerra che
gli Stati Uniti si accingono a scatenare contro l'Iraq. La prima
parte "Operazione Babilonia/1. Guerra all'Iraq o all'Arabia
Saudita?" è uscita sul numero 43 del 2002. La terza, ed ultima,
parte, verrà proposta sul prossimo numero di UN.

IL PETROLIO COME ARMA POLITICA

Il petrolio iracheno, quindi, assume agli occhi di Washington (e di
Londra) la funzione di strumento di disarticolazione del cartello
dei maggiori paesi produttori di petrolio, nonché di mezzo di
pressione nei confronti degli altri tre membri del Consiglio di
Sicurezza dell'ONU dotati del potere di veto (Francia, Cina e
Russia), le cui riserve sono state bypassate (pur permettendo loro
di salvare la faccia) minacciandone l'esclusione dal mercato del
greggio mesopotamico. È già stata data comunicazione ufficiale della
formazione di un consorzio petrolifero guidato dall'Exxon-Mobil e
dalla Chevron-Texaco (e con la sicura partecipazione
dell'anglo-olandese Shell) che nel dopo Saddam gestirà le quote di
produzione e le postazioni più interessanti del paese. Queste
postazioni sono le stesse il cui sfruttamento russi, francesi e
cinesi (oltre che italiani, vietnamiti, algerini e indiani) hanno
trattato con Saddam in questi anni in vista della fine delle
sanzioni. In particolare i russi hanno centrato la loro attenzione
su tre giacimenti particolarmente promettenti situati nell'Iraq
meridionale e garantiti da un maxiaccordo per 40 miliardi di
dollari, mentre i francesi di TotalFinaElf avevano raggiunto un
accordo per lo sfruttamento del giacimento di Magnun situato al
confine con l'Iran e accreditato di una potenzialità di 30 miliardi
di barili. I cinesi, infine hanno avviato ricerche e accordi per lo
sfruttamento dei giacimenti ancora poco sfruttati del deserto
occidentale. Gli italiani, gli indiani, gli algerini e i vietnamiti
(e dietro a loro sembra anche i tedeschi) si sono per ora limitati
ad accordarsi per future ricerche nella stessa area dove avrebbero
dovuto operare i cinesi. Lo stesso programma Oil for Food è entrato
clamorosamente nel gioco ad impadronirsi del petrolio iracheno.
Questo non solo a proposito del percorso dell'oleodotto prescelto
per il trasporto del greggio, decisione che come abbiamo visto ha
favorito la Turchia e il suo ruolo nell'area. Questo ruolo e i
finanziamenti ricevuti dall'ONU per svolgerlo ha permesso ad Ankara
di iniziare prospezioni petrolifere nel nord dell'Iraq (che occupa
militarmente) d'intesa con il Partito Democratico del Kurdistan di
Barzani che amministra l'area al confine con il paese di Ataturk;
altre prospezioni, sempre con gli stessi fondi, sono state avviate
d'intesa con lo stesso Saddam nel sud Iraq a maggioranza sciita.
Tutti questi movimenti spiegano bene la riluttanza dei turchi a
prendere parte alla guerra che si avvicina senza avere avuto
rassicurazioni certe sul futuro dei propri investimenti petroliferi,
anche se occorre sottolineare come essi siano avvenuti non in
contrapposizione con gli interessi delle compagnie petrolifere USA
ma in piena concordia con loro che in questo modo si sono assicurate
una riserva di un milione di barili al giorno utile a calmierare il
prezzo del greggio in caso di forzature da parte dei paesi OPEC.
In generale il sistema energetico iracheno si presenta come ben più
interessante di quanto non si pensasse alla fine della prima Guerra
del Golfo, sia per le riserve accertate di petrolio (112 miliardi di
barili, l'11% di quelle mondiali), sia per quelle possibili che si
pensa siano almeno il triplo. Baghdad si affermerebbe in questo caso
come il primo paese produttore del mondo e il primo fornitore di
Europa e Asia, e potrebbe decuplicare l'attuale produzione massima
potenziale stimata in 2,8 milioni di barili al giorno. Oltre al
petrolio non si deve dimenticare che le più recenti stime indicano
che l'Iraq potrebbe decuplicare in dieci anni la sua produzione di
gas (attualmente ferma a soli 160 milioni di metri cubi al giorno)
grazie ai giacimenti appena scoperti nel nord est del paese, mentre
si calcola che la produzione di gpl (gas petrolio liquido) dovrebbe
portarsi a 3,8 milioni di tonnellate annue. In qualche misura,
quindi, un vero e proprio paese del Bengodi del capitalismo
petroliero.
Tutto questo rende comprensibile non solo l'operazione anglo
americana volta al controllo totale delle risorse del paese, ma
anche gli scontri sottotraccia tra i molti beneficiari di questo
piano, tra loro in rapporto di collaborazione-competizione ma
totalmente infeudati agli Stati uniti, dalla cui benevolenza dipende
la loro partecipazione a questo grande business. I turchi non
vogliono perdere la loro posizione di privilegio nel controllo del
tracciato gas-petrolifero Iraq-Europa via porto di Ceyhan, e sono
coscienti che eventuali turbolenze nella zona curda potrebbero
convincere gli americani (una volta che essi fossero definitivamente
padroni del paese) a utilizzare la bidirezionalità del sistema di
oleodotti e gasdotti iracheni per spostare il flusso verso il Golfo.
Per Ankara, quindi, diventa essenziale garantirsi buoni rapporti con
i curdi iracheni senza peraltro mollare di un'unghia nell'attività
di repressione e di genocidio culturale dei curdi di casa propria. I
curdi iracheni, sia quelli del Partito Democratico del Kurdistan
(Barzani), sia quelli dell'Unione Patriottica del Kurdistan
(Talabani) sono coscienti delle possibilità che una guerra può loro
aprire e mirano alla diretta gestione del greggio presente sul loro
territorio e non solo più ad ottenere tasse di transito e quote di
produzione. La pace tra i due partiti curdi e la formazione di un
loro parlamento sembra rispondere alla necessità di rendersi
credibili in vista del futuro conflitto con la Turchia per la
gestione del petrolio della zona. Inoltre Ankara e i curdi iracheni
sono in competizione per la futura gestione dell'area di Kirkuk,
situata nel nord dell'Iraq ma fuori dalla zona sotto controllo
curdo.
La Siria, infine è anch'essa interessata al proseguimento della
politica di trasporto del petrolio inaugurata dal programma Oil for
Food che, come abbiamo visto ha privilegiato la direzione
Mediterraneo rispetto a quella del Golfo. In questi anni, infatti, i
siriani hanno ottenuto l'implicito assenso americano alla gestione
di ampie quote di petrolio iracheno di contrabbando trasportato
dall'oleodotto Kirkuk-Baniyas (porto siriano) e i loro tentativi di
non uscire dal gioco oggi si concentrano sul rendere ufficiale
questo flusso; obiettivo raggiungibile solo con l'accordo degli
Stati uniti, e questo dato spiega meglio di mille analisi il voto
favorevole della Siria in sede di Consiglio di Sicurezza dell'ONU
alla risoluzione-capestro sulle ispezioni in Iraq.
Come api sul miele tutti gli attori che possono guadagnare qualcosa
(o confermare i risultati ottenuti) dalla fine del regime di Saddam
hanno iniziato la corsa al miglior posizionamento nel futuro ordine
iracheno. Per quanto riguarda gli USA, però, l'obiettivo è ben più
ambizioso del semplice controllo del petrolio del paese
mesopotamico; esso, anzi, è il tramite per l'obiettivo vero e
proprio: l'Iraq filoamericano uscirà dall'OPEC, affrancandosi dagli
obblighi di quota, affermandosi come alternativa petrolifera
all'Arabia Saudita (e, en passant, al Venezuela, all'Iran e magari
un domani a una Russia meno sdraiata sulle posizioni americane). La
conseguenza sul breve periodo sarà probabilmente quella di portare
il prezzo del barile a 15-16 dollari, e sul medio periodo a 9 o
dieci dollari. Una colossale riduzione del reddito e dell'influenza
politico-economico dei paesi produttori e una gigantesca iniezione
di liquidità dovuta a risparmio per l'economia americana, la cui
dipendenza dal greggio non solo non verrà messa in discussione ma,
anzi, alimentata da questi sviluppi. Sviluppi che metteranno
viceversa in difficoltà le politiche europee volte alla
differenziazione energetica e alla maggiore dipendenza dal gas, e
quelle cinesi tese alla ricerca di fonti petrolifere indipendenti
dal ferreo controllo americano.

ARABIA E RUSSIA: DUE FRONTI DELLA GUERRA ALL'OPEC

Le ragioni profonde della rottura non pubblicizzata tra gli USA e
l'Arabia Saudita vanno ricercate nella politica energetica di
quest'ultima. Secondo le proiezioni sull'aumento della domanda USA
di petrolio la dipendenza di questi ultimi dal greggio OPEC passerà
entro il 2002 da 5,4 a 9,7 milioni di barili al giorno. Riyad è in
testa alla classifica dei fornitori USA e quindi vedrebbe aumentare
di molto le proprie vendite agli Stati Uniti. Quasi la metà dei 4,3
milioni di barili al giorno che gli USA consumeranno in più dovrebbe
infatti avere origini saudite.
L'Arabia Saudita, però, non ha fatto nulla per incamminarsi su
questa strada, l'aumento di capacità produttive è stato modesto: da
8,8 a 9,4 milioni di barili al giorno, di cui soltanto 7,5 di
produzione effettiva. In questi anni l'Aramco (la compagnia
petrolifera saudita) non ha investito a sufficienza per rispondere
alla crescita preventivata della domanda americana. Questo
fondamentalmente per mantenere il più alto possibile il prezzo del
barile.
Gli americani richiedono ai sauditi di portare per il 2010 la loro
capacità produttiva a 14 milioni di barili al giorno (riserve
incluse) e per ottenere questo sono giunti a offrire a Riyad di
gestire direttamente la ricerca e la produzione del petrolio in
Arabia Saudita. In altre parole, di fronte alla freddezza saudita
nel rispondere alle richieste americane di aumentare la produzione,
gli Stati Uniti propongono a Riyad di passare dalla
commercializzazione del prodotto saudita al controllo del territorio
del regno mediorientale. Controllo che sarebbe garantito
militarmente dai soldati americani presenti in Arabia. Washington di
fatto ha chiesto a Riyad di accettare amichevolmente che gli Stati
Uniti facciano fare al loro paese la stessa fine dell'Iraq. Solo
senza bisogno di una guerra.
Di fronte a questa offensiva americana che a tratti diventa franca
minaccia, la casa regnante dei Saud ha provato a reagire utilizzando
quattro armi: da un lato il finanziamento dei movimenti wahabiti
armati in Asia Centrale e Caucaso, dall'altro l'appoggio diplomatico
e spettacolare alla causa palestinese (proposta del principe
ereditario 'Abdallah, subito appoggiata dal pagliaccio nostrano
Berlusconi e immediatamente passata in cavalleria), da un lato
minacce riguardanti la diminuzione della produzione in caso di
conflitto, dall'altro proposte di utilizzare la propria eccedenza
petrolifera (dai 2 ai 2,5 milioni di barili al giorno) per evitare
un'impennata del prezzo in caso di conflitto prolungato. Anche Riyad
come Washington cerca di usare insieme bastone e carota, ma il gioco
saudita è molto più difficile e rischioso, e la stessa famiglia ha
oggi visibilmente paura di una sua defenestrazione dal trono arabo
soprattutto dopo che a Londra e negli ambienti oltranzisti di
Washington si è iniziato a parlare di un'eventuale sostituzione
dell'attuale famiglia regnante con quella hashemita, un tempo
custode dei luoghi sacri dell'Islam e oggi confinata al trono di
Giordania. La sensazione di isolamento deve essere davvero forte nei
palazzi dei Saud se, per la prima volta dalla caduta dello Shah, si
sono avuti colloqui positivi tra i ministri degli Esteri arabo e
iraniano.
Il primo fronte della "Guerra all'OPEC", quello arabo, in sintesi
può essere descritto così: Washington ha bisogno per rilanciare
un'economia in recessione di aumentare notevolmente il consumo di
petrolio e ridurne notevolmente il costo; nello stesso tempo allo
scopo di evitare che dei potenziali futuri concorrenti possano
ottenere l'accesso privilegiato alle risorse energetiche
fondamentali ha necessità di ottenere il controllo dei principali
giacimenti di gas e petrolio tra il Medio Oriente e l'Asia Centrale.
Per ottenere questi obiettivi deve piegare l'OPEC ottenendo i prezzi
più bassi possibili e, insieme, deve ottenere il controllo di uno
dei due paesi che dispongono di riserve tali da condizionare
fortemente il prezzo del petrolio (l'Iraq) e piegare l'altro ad
accettare il proprio protettorato (l'Arabia Saudita) con le buone o
con le cattive.
Il secondo fronte della guerra all'OPEC è rappresentato dalla Russia
nei confronti della quale, come abbiamo visto, gli Stati Uniti hanno
compiuto una svolta decisa nel senso del miglioramento dei rapporti.
L'obiettivo di questo riavvicinamento americano è la volontà di
sfruttare la ripresa petrolifera russa per creare approvvigionamenti
alternativi che consentano loro di combattere meglio la guerra dei
prezzi. L'interesse russo nell'accompagnarsi agli USA nella guerra
all'OPEC è rappresentato dalla prospettiva di rastrellare i
finanziamenti e il know-how necessario per lo sviluppo dei
giacimenti siberiani e dell'isola di Sahalin. I capitali e le
capacità tecniche necessarie per queste operazioni sono reperibili
solo tra le corporations americane le quali, come abbiamo visto
hanno tutto l'interesse a finanziare le trivellazioni al fine di
disporre di ulteriori alternative al greggio saudita.
Al momento, però, questo secondo fronte risulta ancora un'incognita
dal momento che le ricerche russo-americane sui nuovi giacimenti
sono appena all'inizio e la Russia riesce ad eccedere di appena un
milione di barili al giorno la quota assegnatale dall'OPEC. È
evidente che i russi sono disposti a seguire gli Stati Uniti nella
guerra per l'abbassamento dei prezzi, ma è altrettanto evidente che
in questo momento non sono in grado di assestare ai paesi OPEC un
colpo decisivo.
In compenso la Russia è interessata a salvaguardare i suoi interessi
in Iraq che non riguardano tanto il regime di Saddam quanto la
possibilità di contare sul flusso di petrolio iracheno tramite la
Siria e di trarre profitto dagli investimenti fatti finora sul
sottosuolo del paese mediorientale. Una convergenza con Washington
su questi terreni non è da escludere ma ad oggi non è nemmeno
scontata, dal momento che la volontà americana è quella di evitare
intromissioni nella gestione del greggio del Golfo.

IL QUARTO MARE

Ultimamente nel dibattito geopolitica si è iniziato a definire
"Quarto mare" l'area dell'Asia Centrale particolarmente ricca di
materie prime energetiche e teatro delle ripresa del "Grande gioco"
tra potenze. Quest'area è da tempo teatro dell'interferenza
americana. In un primo momento, durante l'invasione sovietica
dell'Afganistan, gli Stati Uniti hanno agito in collaborazione con
sauditi e pakistani. In quel momento la diffusione dell'islamismo
wahabita era appoggiata da Washington dal momento che gli americani
erano convinti che l'ampliamento della sfera di influenza dei Saud
andasse a tutto vantaggio della strategia di controllo energetico
USA. In un secondo momento, come sappiamo, l'insorgere di correnti
antiamericane all'interno della galassia wahabita estremista ha
convinto gli americani a dare il via a un'azione diretta di
controllo dell'area scontrandosi con gli ex alleati. L'attentato
alle Twin Towers e la guerra afgana (che, giova dirlo, continua
nell'assordante silenzio dei media) sono solo i risultati più
evidenti di questa battaglia che ha come posta in palio il controllo
delle risorse energetiche mondiali e, quindi, i rapporti di forza
tra la superpotenza americana e il resto del mondo.
La consistenza esatta delle risorse del "Quarto mare" è tuttora poco
conosciuta. Le cifre ufficiali sulle riserve di greggio oscillano
tra i 7 e gli 8 miliardi di tonnellate ma, in realtà, le ultime
scoperte permettono di pensare che questi valori siano troppo bassi.
Inoltre la possibile unione in solo flusso di greggio delle risorse
dell'area con quelle del Caspio si arriverebbe a superare i 35
miliardi di tonnellate. Le riserve di gas sono ancora più importanti
contando almeno su 8000 metri cubi.
Il collegamento Caspio-Caucaso con il Quarto mare viene a
configurarsi come la grande riserva energetica dell'Eurasia.
Il problema americano nell'area è sintetizzabile in questo: il
collegamento dei tre mari più uno risolve la questione di far
raggiungere l'Europa a queste risorse ma non quella di ottenere lo
stesso risultato con l'Asia del sud est.. Quest'ultima area,
infatti, può essere raggiunta utilmente solo passando per la Russia
o per l'Iran. Non a caso gli Stati Uniti hanno inserito l'Iran
nell'ormai famoso "Asse de male" e operano scopertamente per
favorire un cambio di regime. Allo stesso tempo gli americani
ricercano in quest'area la massima collaborazione dei russi ai quali
hanno aperto i consorzi che si apprestano a sfruttare i risultati di
questo business. Esempi lampanti in questo senso son l'oleodotto
Tengiz (in Kazakistan)- Novorossijsk (in Russia) o quello famoso
Baku (in Azerbaigian) - Ceyhan (in Turchia), in via di realizzazione
con la partecipazione di americani, russi, turchi, arabi, giapponesi
e italiani. In particolare per l'Italia sono coinvolte l'Agip e la
Saipem che lavorano la prima alle prospezioni, la seconda alla
fornitura di tecnologie di trasporto.
Giacomo Catrame


http://www.ecn.org/uenne/



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