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(it) Vis-à-Vis: Le vie del "movimento" non sono infinite
From
Meletta <meletta@aconet.it>
Date
Sat, 4 Jan 2003 12:49:29 -0500 (EST)
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A - I N F O S N E W S S E R V I C E
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http://ainfos.ca/index24.html
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Vicolo cieco, scorciatoia pericolosa o svolta a sinistra?
Alcune riflessioni sul percorso politico del "movimento" tra Cosenza e Genova
Il montante fragore dei venti di guerra che raggelano questo inverno,
innaturalmente mite, non riuscirà ad annichilire il "vento di Seattle", né
a trasformarne il ruggito di ribellione nel belato di un pacifismo tanto
operativamente impotente, quanto ecumenicamente inclusivo delle più
svariate e contrastanti opzioni di "pace".
Alla logica di guerra, di rapina e di morte di un capitalismo
imperialistico ormai spudoratamente teso alla più scoperta predazione in
salsa bellicistica del mondo intero, si dovrà saper rispondere sul piano
della "guerra di classe": la nostra "proposta di pace" non potrà né dovrà
rimanere ingabbiata nelle forme di questo presente contesto socio-politico
che la guerra stessa è costretto per sua natura a generare. Ed è per questo
che riteniamo di dover riprendere il discorso, non già dall'incombente pur
orrorifica emergenza bellica, bensì dagli ultimi momenti significativamente
"alti" che il "movimento" ha espresso.
Quasi centomila persone in corteo a Cosenza, 20-30 mila manifestanti a
Genova: questi numeri ci dicono qualcosa? Se è vero che la quantità, entro
certi limiti, fa qualità, queste cifre mettono in evidenza una zona
d’ombra, un fascio di ambiguità che ancora offusca la coscienza e la
pratica del "movimento".
L’inchiesta di Cosenza si basa essenzialmente su reati di opinione. Di
fronte a un'aberrazione di questo genere, rivendicare la libertà di
pensiero e di parola, anche nei loro contenuti più radicali, risulta al
contempo una strategia di attacco nell’agone politico e di difesa nelle
aule giudiziarie. Una strategia che, comunque, non esce dalla
rivendicazione dei diritti riconosciuti da un qualsiasi ordinamento
liberal-democratico.
L’inchiesta di Genova ha invece tutt’altra natura, pur facendo
oggettivamente parte della stessa strategia complessiva di repressione
"generalizzata", innescatasi sull'onda della guerra infinita,
definitivamente esplosa dopo le Twin Towers, come controrivoluzione
preventiva globale. Al di là delle evidenti forzature (vedi la
"partecipazione psichica" o il reato di "saccheggio"), ciò che viene
contestato in questo caso sono fatti determinati, specifici comportamenti
illegali. Agli avvocati spetterà senza dubbio il compito di contestare la
partecipazione dei singoli inquisiti ai fatti loro imputati, e/o di
dimostrare l’insussistenza di quelle aggravanti che permettono di
identificare fattispecie di reato più gravi.
Ma qual è la posizione politica del "movimento" nei confronti dei fatti
contestati? Ci dobbiamo forse limitare a far pressione affinché la
giustizia segua il suo corso nel modo più "imparziale" possibile,
individuando i responsabili di ciò che accadde a Genova? Ammettiamo solo
per un attimo che la magistratura, in un sussulto di inverosimile
"autonomia", faccia fino in fondo il suo dovere costituzionalmente
stabilito: si scoprirebbe a tal punto che la polizia ha deliberatamente
agito in modo del tutto ingiustificato e i responsabili, in alto e in basso
loco, verrebbero dunque perseguiti e puniti. Bene, anche in tale
prospettiva continuerebbero però a sussistere, comunque, gli atti
"criminosi" perpetrati dai manifestanti di Genova, perché nel nostro
ordinamento giudiziario non è previsto in alcun modo il cosiddetto "diritto
di resistenza", di cui vagheggiava lo stesso Kant. Cosa dovremmo fare a
questo punto? Accettare che chi ha "sbagliato" venga "legittimamente"
punito ?!?
Questi sono gli acquitrini melmosi in cui ci si va ad infognare, volendo
mantenere un basso profilo politico e cercando sostanzialmente di salvare
la capra della radicalità e i cavoli della ragionevolezza!
Il vero problema è che, di fronte all’inchiesta di Cosenza, ci si può anche
limitare a rivendicare la libertà "formale" di pensare un altro mondo
possibile, ma l’inchiesta di Genova ci impone di affermare il nostro
diritto "sostanziale" ad agire affinché quest’altro mondo incominci a
diventare reale. E questo significa rivendicare anche il diritto di
resistenza nei confronti del potere quando esso sospende, come è accaduto a
Genova, lo "stato di diritto e le garanzie democratiche", per reprimere
quell’intollerabile alterità che con la sua prassi mette concretamente in
forse il suo stesso dominio. O forse pensiamo che padroni e padroncini di
questo mondo siano così gentili da consentirci di costruirne indisturbati
un altro, dove per loro non ci potrà comunque essere alcun posto ?!?
Nessuno però si illuda di poter giocare furbescamente con le parole, come
oggi va tanto di moda "a sinistra": il diritto di resistenza non equivale
al diritto di disobbedire alle leggi che si ritengono ingiuste. In
quest’ultimo caso, infatti, la contestazione puntuale di una singola norma
non inficia affatto il sistema di norme in quanto tale, anzi: a tale
sistema necessariamente rimanda, perché presuppone la necessità di
sostituire la legge ritenuta ingiusta con un'altra considerata più equa,
con ciò spostando soltanto i confini della legalità esistente, senza però
contestarne l'intrinseca natura comunque sostanzialmente quanto
arbitrariamente impositiva.
Rivendicare il diritto di resistenza significa invece affermare la più
radicale autonomia del nuovo soggetto collettivo che nelle vie di Genova ha
mosso i suoi primi passi; un’autonomia che nelle sue più coerenti ed
estreme conseguenze nega l’obbligo di obbedienza nei confronti dello stato
e di tutte le sue leggi.
Nessuno stato può infatti riconoscere, se non nella forma di una mera
petitio principi priva di qualsiasi effettualità, il diritto di resistenza,
perché questo significherebbe offrire i mezzi legali per la propria stessa
distruzione. Una contraddizione logica, cioè, dal punto di vista del
diritto positivo e, cosa ancor più importante, una negazione della più
intima essenza del potere statuale in quanto tale: la "violenza concentrata
e organizzata della società". Solo lo stato, infatti, può disporre della
vita dei propri cittadini. Tale monopolio, a ben vedere non conosce limiti,
neanche quelli posti dai principi normativi che giustificano il potere
statale stesso. Quando Weber asseriva che lo stato detiene il "monopolio
dell'uso legittimo della forza", intendeva porre l'accento sull'esclusività
di questa prerogativa e sul suo possibile dispiegarsi anche al di là della
legalità stessa. La violenza è legittima - conforme, cioè, ai principi
generali ed alla tradizione storica sottesi alla normativa vigente -, in
quanto portata avanti dall'ente statale stesso, quali che siano le modalità
in cui si esprime. Anzi, proprio nell'eventualità dello "stato di
eccezione", lo stato stesso conferma la propria natura. Infatti, mantenendo
la sua vigenza pur nella sospensione dell'ordinamento giuridico che lo
giustifica, arriva a disvelare l'"arcano" secondo cui ogni potere
costituito, prima di esprimersi come fonte autonoma e sovrana di diritto,
si autodetermina come pura e diretta violenza impositiva. In sostanza lo
stato di eccezione rivela gli elementi costitutivi posti alla base di ogni
sistema normativo: la forza e la schmittiana "decisione", che determinano
l'intervento in grado di risolvere l'eventuale ma sempre incombente
emergenza della crisi, attraverso la sospensione o la rottura
dell'esistente ordinamento giuridico.
Si può dire senza remore, quindi, che il disincantato Weber e il
reazionario Schmitt offrono una descrizione del processo reale più fedele
di quella sostenuta dal democratico Kelsen, propositore dell'idea di un
sistema giuridico che, non trovando fondamento al di fuori di se stesso, ha
una vita propria a prescindere dal contesto sociale di riferimento ed è
dunque compatibile con qualsivoglia ordinamento socio-economico (e
addirittura suscettibile, nella sua forma democratica, di regolare il
passaggio, senza rotture formali, da un certo tipo di rapporti sociali di
produzione ad un altro). La "sinistra", dal suo canto, preferisce spesso
attenersi a questo idealismo mistificante dello stato, promuovendo la
realizzazione, presuntivamente progressiva, della ipotetica quanto astratta
"neutralità" di esso, e finendo ineluttabilmente però per scontrarsi con la
ben più concreta costituzione materiale intimamente classista delle
"istituzioni statuali". Il "nobile" cammino verso l’astratto "dover essere"
dello stato si rivela così come un meschino fermarsi di fronte al concreto
statu quo.
Se vogliamo andare al di là di una critica moraleggiante, condannata
all’impotenza dalle sue interne contraddizioni, dobbiamo riconoscere lo
stato e l’ordinamento giuridico in cui esso articola la propria
costituzione formale, per quello che sono: formalizzazione di rapporti di
forza o, più specificatamente, sedimentazione normativizzata di specifici
rapporti di classe. Tale "concretizzazione normativa" può essere più o meno
flessibile, a seconda delle circostanze, ma mai a tal punto malleabile da
poter tollerare di veder messi in discussione i rapporti sociali di
produzione su cui essa è fondata, sia pur in modo occultato. I rapporti di
classe che da sempre costituiscono le materiali fondamenta dello stato
(pudicamente celate, da Madama la Borghesia, nell'astrattizzazione della
mediazione politica e dell'asettica, omologante figura del citoyen) sono
rapporti intimamente e ineluttabilmente antagonistici, e tale antagonismo
si manifesta apertamente ogni qualvolta il proletariato si avvia a
riconquistare la sua autonoma soggettività, negando il rapporto dialettico
che lo lega al capitale e che viene irregimentato nell’ordinamento
giuridico, a tutto vantaggio del capitale stesso. In siffatti momenti, la
capacità impositiva e disciplinatrice della legge, calibrata sul "normale"
riprodursi dei rapporti sociali di produzione presupposti, mostra la sua
inadeguatezza e cede il passo al dominio della forza: tale stato
d’eccezione è certamente un’anomalia, rispetto al ciclo dell'astratto che
connota il comando del capitale, ma un’anomalia ricorrente,
costitutivamente inestirpabile e in sé già allusiva di quella
espropriazione degli espropriatori - la "negazione della negazione" -, di
cui ancora ci parla Marx (a quando un "riappacificante" rogo dell'opera
omnia di tale intramontabile "cattivo maestro" ?!?).
E tale ricorrenza diviene oggi sempre più frequente, dal momento che il
mondo intero è minacciato da una guerra illimitata nel tempo e nello
spazio, che tutto giustifica in nome della sicurezza degli attuali assetti
societari, nei confronti di un nemico tanto sfuggente da avere il dono
dell'onnipresenza: la guerra preventiva verso il nemico esterno è anche
controrivoluzione preventiva verso il nemico interno.
Si rimarca oggi un passaggio storico che decreta la morte della politica e
il dispiegarsi della politica della morte. La sospensione del cosiddetto
stato di diritto, da condizione limite delle normali regole democratiche,
si sta progressivamente imponendo come il limite che condiziona
regolarmente la democrazia. La gabbia del controllo sociale e della
repressione si fa sempre più opprimente. Cosa si dovrebbe fare di fronte a
questo scenario di progressiva restrizione degli spazi di agibilità
politica? Limitarsi ad elevare ragionevoli appelli al buon cuore dei nostri
aspiranti carcerieri?
A "Genova 2001" migliaia e migliaia di persone non sono state di questo
avviso. Di fronte alla brutale repressione di un potere che non
voleva/poteva tollerare la manifestazione di una sia pur embrionale
soggettività collettiva antagonistica, la massa degli individui ha
collettivamente e spontaneamente rifiutato gli opposti, ma simmetrici
copioni che altri avevano scritto. I manifestanti avrebbero dovuto essere
passiva massa di manovra o inerte carne da macello, ma così non è andata:
di fronte alle selvagge cariche dei reparti scelti di una polizia
definitivamente militarizzata, non c’è stato solo il disperdersi impazzito
di un "branco" in preda al panico, ma si è manifestato anche un impulso
collettivo, coraggioso e consapevole, a reagire sul piano dell'autodifesa
contro un indiscriminato ed efferato attacco. La maggior parte degli
individui che hanno dato vita a quegli scontri era scesa in piazza per
manifestare pacificamente. Non si trattava dei tanto vituperati black
block: l’azione di questi ultimi, in realtà, ha rappresentato solo una
minima parte di ciò che a Genova è avvenuto. La verità è che un gran numero
di "pacifici" manifestanti, di fronte all’alternativa tra farsi massacrare
con le mani alzate e cercare di difendersi, ha scelto la seconda strada. E
in questa determinazione le singole individualità hanno riscoperto la
capacità di agire collettivamente secondo un fine comune, riconoscendosi
parte di un’organica intersoggettività, senza capi e senza gregari. In
quelle tragiche circostanze si è creata una concreta comunità di lotta,
tangibile allusione di quel gruppo in fusione che Sartre individua nelle
tipiche dinamiche della folla rivoluzionaria.
Carlo Giuliani era uno di loro. Un compagno come tanti. Non un marginale,
uno sbandato in cerca di risse con la polizia. Si è trovato lì, a piazza
Alimonda, costretto a difendere la propria e l’altrui incolumità, suo
malgrado, e si è comportato come tantissimi altri in quell’occasione. Molti
hanno cercato di appropriarsi del significato politico della sua morte,
magari dopo aver cercato di prenderne sciacallescamente le distanze, quando
il suo corpo esanime era ancora caldo. E così l’immagine di Carlo è
diventata per molti solo uno spettacolare santino, costruito su una
gigantesca rimozione tanto ipocrita quanto fragile: è come se dalle
immagini che riprendono gli ultimi momenti della sua vita fosse stato
cancellato l’estintore che teneva in mano. Carlo è stato descritto come una
vittima innocente. Ma così non è stato. Carlo è consapevolmente stato una
"vittima colpevole": colpevole di resistenza all’oppressione e alla
brutalità poliziesca!
Chiunque si presti al gioco perverso di dividere il movimento tra "buoni e
cattivi", tra "pacifisti e militaristi", abbia almeno il buon gusto di non
pronunciare il nome di Carlo. Non gli appartiene! Queste distinzioni
lasciamole fare alla polizia, quella stessa polizia che non cessa di
assemblare canovacci d'indagine che brillano per l'opacità delle accuse che
vi si muovono, sempre comunque miratamente dirette contro l’intera "ala
sinistra del movimento" (indifferentemente antagonista e/o anarchica e/o
autonoma).
In ogni caso, è ormai addirittura spudoratamente evidente che si sta ancora
giocando, per l'ennesima volta, la carta di costringere il "movimento"
nella forbice perversa tra la più remissiva subalternità nei confronti
dello stato e del lessico della mediazione politica, e l'avventurismo
ipersoggettivistico di insignificanti grumi di ceto politico,
autoproclamatisi avanguardie: ancora una volta, i servi più o meno sciocchi
del potere intimano "o con noi o contro di noi"! Ancora una volta il
"movimento" deve rifiutare e denunciare con tutta la sua forza questo
mistificante e paralizzante aut-aut. D'altronde, nessuna segreta
conventicola di "specialisti della cospirazione manu militari" può decidere
sopra la sua testa, nessuno può imporgli di portare il livello dello
scontro su un terreno oggettivamente contrapposto a quella pratica diretta
e di massa che costituisce la sua più specifica e qualificante modalità di
espressione autonoma.
Quello che è successo a "Genova 2001" nulla ha a che fare con i deliri
"lottarmatistici": le bombe e le pistole sono le solite armi di una
rinnovata strategia della tensione che, come sempre, si avvale anche dei
soliti "imbecilli manipolati" o, più precisamente, degli usuali "manipolati
perché imbecilli".
Una diffusa domanda politica sta emergendo, ed è una domanda radicale, nel
senso che può trovare risposta solo andando alla vera radice dei problemi.
Se non sapremo dare risposte adeguate qualcun altro risponderà per noi,
magari con sinistri e lugubri ritornelli, sentiti oramai tante, troppe
volte. Ritornelli che hanno purtroppo il vantaggio di apparire estremi e
risolutivi, a fronte di tanti opportunismi trasformistici oggi in gran voga
fra i sostenitori del cosiddetto "moltitudinario movimento dei movimenti"
(cosa ben diversa da quel movimento di massa a struttura soggettiva che noi
intuiamo embrionalmente presente nel "movimento" di Seattle, Praga, Nizza,
Napoli, Genova, Barcellona …), laddove sono in realtà semplicisticamente
inconcludenti, se non addirittura tragicamente suicidi. Né, d'altro canto,
servirà ad alcunché trastullarsi in ingenue quanto imbelli illusioni,
cercando di isolare tutti coloro che non vogliono accontentarsi di
"ragionevoli" rimedi, di accomodanti rattoppi. Secchiate di falsa coscienza
non possono spegnere l’incendio: oramai l’intero Reichstag è in fiamme!
Le domande, dunque, rimangono ed esigono una risposta. Non siamo noi ad
inventarle, ma sono ineluttabilmente poste all'ordine del giorno in forza
dell'attuale ormai evidente crisi strutturale, su scala planetaria, della
valorizzazione capitalistica e della rappresentanza borghese (due facce
diverse di quel medesimo ciclo dell'astrattizzione universale che da sempre
connota costitutivamente il dominio di Monsieur le Capital).
Stiamo assistendo ad una divaricazione progressiva tra i diritti formali di
cittadinanza e il diritto sostanziale alla partecipazione democratica. Il
modello istituzionale che ci viene propinato in tutte le salse è, in buona
sostanza, quello già definitivamente consolidatosi negli Usa: un modello in
cui la vexata quaestio della possibile degenerazione della democrazia in
dittatura della maggioranza appare oramai un problema meramente accademico,
in quanto si sta da tempo assistendo ad una sempre più ferrea quanto
"legale" tirannia della minoranza. L’esclusione è ormai la regola
oggettivamente invalsa tanto nella sfera politica, quanto in quella economica.
Al di là della limpidezza abbagliante della critica pratica della politica
istituzionale espressasi nel "laboratorio argentino", l’astensionismo
elettorale portatosi a livelli abnormi in tutto il "mondo democratico"
(?!?) denuncia quanto meno, e in modo incontrovertibile, l'enorme
diffusione del più totale disincanto nei confronti del ciclo della
rappresentanza, con la conseguente crisi della mediazione politica e della
legittimità dello stato stesso. A Lor Signori, nonostante il loro
onnipervasivo potere di controllo nei confronti dei mezzi di comunicazione,
non riesce più il giochetto di escludere concretamente dal godimento della
ricchezza socialmente prodotta e, nel contempo, coinvolgere formalmente nel
ciclo astrattizzante della democrazia rappresentativa. Cosa dovrebbe fare
il movimento di fronte a tale scenario? Cercare di ricucire lo strappo fra
"società civile" e "palazzo", traducendo la sua prassi nel lessico della
mediazione politica? O dovrebbe invece allargare quella crisi di
legittimità, avocando al sociale il diritto di costituire nuove forme,
potenzialmente universali, dell’agire collettivo?! … istituti di democrazia
diretta in cui l'immensa maggioranza degli uomini e delle donne possa
infine autocostituirsi come comunità umana, contro l'infima minoranza di
coloro che ne pretendono procrastinare a proprio piacimento la più drastica
condizione di disumanità?!
Quando, più di due secoli fa, Madama la Borghesia, in Francia, constatò
l’impossibilità di affermarsi dentro le vecchie forme politiche dell’Ancien
Regime, essa distrusse con la forza l’involucro istituzionale del vecchio
mondo. Il terzo stato si autoproclamò "assemblea costituente" e fece
letteralmente a pezzi la Bastiglia! Le condizioni per quell’enorme
sommovimento storico-sociale, furono poste, per un verso, dalla lenta ma
inarrestabile crescita della centralità della borghesia urbana, a fronte
dell'emarginazione sempre più scopertamente parassitaria della Corte e
della Chiesa, per un altro verso, da un vasto fermento culturale e
filosofico capace, senza riverenza alcuna, di criticare in profondità e di
mettere alla berlina tutti i pregiudizi e le superstizioni su cui si
fondava un secolare sistema sociale e politico. E quando le armi della
critica di tale humus intellettuale giunsero ad interagire sinergicamente
con la critica delle armi di quella classe borghese, allora oggettivamente
rivoluzionaria (ed egemonica sulle vaste masse di un proletariato urbano
condensatosi proprio in forza del dissolvimento dei preesistenti vincoli
societari), giunse il momento della "catastrofe", la frattura del continuum
storico, l'evento di quella "Grande Rivoluzione" che sola poté aver ragione
dell'ormai insostenibile contraddizione materiale fra l'incremento enorme
delle forze sociali di produzione ed i rapporti giuridico-formali che di
esse regolavano il flusso, di fatto interdicendone un effettivo pieno
dispiegamento.
Oggi l'"intellettualità di sinistra" sembra molto meno risoluta di quanto
non sia stata quella della borghesia, nel corso del processo storico della
sua originaria affermazione sul proscenio della storia. Lo stesso ceto
politico del "movimento", in larga maggioranza, non ha ancora smesso di
ossequiare le decrepite istituzioni capitalistiche, limitandosi ad invocare
la protezione e il rispetto di quelle garanzie e di quelle forme politiche
che la borghesia costruì a suo uso e consumo, ed in cui essa stessa, per
prima, oggi non crede più (né, comunque, potrebbe più permetterselo, sotto
il maglio devastante di una crisi di sistema ormai definitivamente
strutturatasi ed irreversibile).
Invece di dividersi tra "buoni e cattivi", in base al rispetto delle regole
di questo mondo ormai in pieno disfacimento, oggi si dovrebbero utilizzare
i "lumi della ragione" per affinare le armi di una critica radicale. Un
altro mondo è possibile, questo il "movimento" l’ha già urlato in tutti i
modi. Ma, quando questo slogan viene riproposto come un vuoto ritornello ad
uso dei media, dai suoi "portavoce" (più o meno autoproclamatisi tali),
spesso induce la spiacevole sensazione che, dietro ad una verbosa
radicalità, si nascondano molti involontari seguaci di quell’idealismo
hegeliano per il quale il possibile è soltanto l’ombra del reale.
Noi, invece, questa intuizione ormai condivisa da milioni di individui, di
una radicale alterità ormai tanto concretamente possibile, quanto
drammaticamente urgente, la vogliamo prendere sul serio! E allora ci
ostiniamo a chiedere a noi stessi ed a tutti: come dovrà essere questo
nuovo mondo? Come lo si può costruire?
Noi vorremmo discutere di questo. Tutto il resto è noia … o ipocrita
risciacquo di coscienze sporche!
1° gennaio 2003
La Redazione
di
Vis-à-Vis
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