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(it) anarres info: Torino 8 marzo. Se non posso ballare non è la mia rivoluzione!
Date
Sun, 18 Mar 2018 10:56:55 +0200
Un alito di primavera ha accompagnato un lungo 8 marzo di lotta all'ombra della Mole. ----
In piazza Castello sin dal mattino è un fiorire di matrioske, cartelli, colori e suoni. In
testa lo striscione "Scioperiamo dal lavoro di cura. Lottiamo insieme!" ---- Lo sciopero
femminista contro la violenza maschile sulle donne e le violenze di genere, si è
articolato come diserzione dal lavoro retribuito fuori casa, ma anche dal lavoro dentro
casa, dai lavori di cura, dai lavori domestici e dai ruoli di genere imposti. ---- La
rinnovata sessualizzazione del lavoro di cura non pagato riduce la conflittualità sociale
conseguente alla erosione del welfare. ---- La riaffermazione di logiche patriarcali offre
un puntello al capitale nella guerra a chi lavora. ---- Lo sciopero femminista scardina
questo puntello, rimettendo al centro le lotte delle donne per la propria autonomia.
La prima tappa è al centro della piazza. Lunghi fili vengono tirati tra i pali: con pinze
da bucato sono stesi pannolini, grembiuli, strofinacci... Tutti oggetti simbolo del lavoro
di cura.
Un camioncino prova senza successo a forzare il blocco, che si allarga sulla piazza. Un
nucleo dell'antisommossa, schierato a pochi passi da una carrozzina con un neonat*, chiede
a gran voce rinforzi. La digos si affanna al cellulare. Si parte in corteo verso via Po.
Per l'intera mattinata si svolgono blocchi con slogan e comizi volanti ai principali incroci.
In corso Regina il corteo viene raggiunto dalle studentesse, che in mattinata avevano
bloccato le lezioni al campus. La mattinata si conclude a Palazzo Nuovo, l'altra sede
delle facoltà umanistiche.
Nel pomeriggio piazza XVIII dicembre, la piazza che ricorda i martiri della camera del
lavoro, si riempie velocemente. Parrucche rosa, fucsia e viola sul nero degli abiti, tanti
striscioni, tulle, cartelli. Il corteo si dipana per il centro. Saremo tremila, forse più.
La prima sosta è davanti alla caserma dei carabinieri Cernaia. Viene appeso uno striscione
contro la violenza dei tribunali, in solidarietà alle donne stuprate, picchiate e offese
che nelle aule di giustizia diventano imputate, chiamate a rispondere della propria vita,
dei propri abiti, dei propri gusti, del proprio no alla violenza. Vengono lette alcune
delle domande fatte in tribunale alle due studentesse statunitensi stuprate da due
carabinieri la scorsa estate a Firenze. Domande di una violenza terribile.
In Italia viene ammazzata una donna ogni due giorni.
Spesso gli assassini usano le pistole d'ordinanza, che hanno il diritto di portare perché
fanno parte dell'elite poliziesca e militare, che detiene per conto dello Stato il
monopolio legale della violenza.
Gli spazi di autonomia che le donne si sono conquistate hanno incrinato e a volte spezzato
le relazioni gerarchiche tra i sessi, rompendo l'ordine simbolico e materiale, che le
voleva sottomesse ed ubbidienti. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi
dimostra che la strada della libertà femminile è ancora molto lunga. Il crescere della
marea femminista è la risposta ad una violenza che ha i caratteri espliciti di una guerra
planetaria alla libertà delle donne, alla libertà dei generi, alla libertà dai generi.
Nelle aule dei tribunali la violenza maschile viene declinata come affare privato,
personale, accidentale, nascondendone il carattere disciplinare, punitivo, politico.
Le lotte femministe ne fanno riemergere l'intrinseca politicità affinché divenga parte del
discorso pubblico, in tutta la propria deflagrante potenza, mettendo in soffitta il
paternalismo ipocrita delle quote rosa, delle pari opportunità, dei parcheggi riservati
alle donne.
Tra i temi di questo 8 marzo di sciopero e lotta, la ferma volontà di rompere il silenzio
e l'indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa contro
chi ci vorrebbe inchiodare nel ruolo di vittime.
Forte è il rifiuto che la difesa delle donne diventi l'alibi per politiche securitarie,
che usino i nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull'intera società.
"Nello stato fiducia non ne abbiamo, la difesa ce la autogestiamo!"
"Lo stupratore non è malato, è il figlio prediletto del patriarcato"
"Siamo la voce potente e feroce di tutte le donne che più non hanno voce!" Questi slogan
riempiono la piazza, deflagrano per il corteo.
Tra i tanti interventi quello di una ragazza curda, che ricorda la lotta delle donne di
Afrin contro l'invasione turca e il patriarcato. Una studentessa sviluppa una critica alla
scuola, dove lo sguardo femminista è quasi sempre assente.
In piazza Castello su uno dei tanti monumenti militaristi della città, quello dedicato al
duca d'Aosta, in braccio ad uno dei soldati raffigurati viene messa una scopa, uno
strofinaccio, un pezzo di tulle rosa.
L'azione è accompagnata da un lungo intervento dal camion.
É il momento per parlare delle donne stuprate in guerra, prede e strumento del conflitto.
In guerra la logica patriarcale sottesa a torture e stupri è meno dissimulata che in tempi
di pace.
Dahira nel 1993 aveva 23 anni. Dahira già conosceva il sapore amaro dell'essere donna in
una società patriarcale. Era stata ripudiata dal marito, perché non riusciva a dargli dei
figli. Una cosa inutile, priva di valore. Ma per lei il peggio doveva ancora venire. In
una notte di maggio di 25 anni fa venne spogliata, legata sul cassone di un camion con le
braccia e le gambe immobilizzate e stuprata con un razzo illuminante. I torturatori e
violentatori erano paracadutisti della Folgore, in missione umanitaria in Somalia. Con
cruda ironia la missione Nato, cui l'Italia partecipò si chiamava "Restore hope -
restituire la speranza".
Gli stessi parà stanno per sbarcare in Niger per una nuova missione. Questa volta
l'obiettivo sono i migranti in viaggio verso l'Europa.
Altri militari saranno in Libia, dove le milizie di Sabratha e Zawija, pagate dallo Stato
italiano rinchiudono uomini, donne e bambini in prigioni per migranti, dove tutte le donne
vengono stuprate. Gli esecutori sono in Libia, i mandanti sono sulle poltrone del governo
italiano.
Il corteo imbocca via Po e si ferma davanti alla chiesa della SS Annunziata, legata a
Comunione e Liberazione. Lì viene appeso uno striscione con la scritta "Preti ed obiettori
tremate. Le streghe son tornate!" Prezzemolo e ferri da calza sono lasciati di fronte
all'ingresso, per ricordare i tempi dell'aborto clandestino, quando le donne povere
abortivano con decotti e ferri da calza, rischiando di morire.
La chiesa cattolica vorrebbe che le donne che decidono di non avere figli muoiano o
vengano trattate da criminali. A quarant'anni dalla legge che ha depenalizzato l'aborto,
ma lo ha sottoposto ad una rigida regolamentazione, in molte città italiane abortire è
diventato impossibile, perché il 100% dei medici si dichiara obiettore.
Preti ed obiettori vorrebbero inchiodarci al ruolo di madri e mogli. Quest'8 marzo ci
trova più agguerrite che mai nella lotta per una maternità libera e consapevole.
Nelle piazze torinesi si è affermato un femminismo capace di obiettivi radicali e pratiche
libertarie, vincendo la scommessa non facile dello sciopero femminista, con la buriana
elettorale appena dietro le spalle, nel netto rifiuto di essere usate come trampolino per
carriere politiche tinte di fucsia.
In quest'8 marzo è emerso l'intreccio potente tra la dominazione patriarcale e la violenza
dello Stato, del capitalismo, delle frontiere,
https://anarresinfo.noblogs.org/2018/03/11/torino-8-marzo-se-non-posso-ballare-non-e-la-mia-rivoluzione/
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