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(it) ALTERNATIVA LIBERTARIA FdCA - QUESTIONE CURDA E CONFLITTO SIRIANO di Pier Francesco Zarcone
Date
Mon, 12 Sep 2016 14:00:38 +0300
UNA QUESTIONE IRRISOLTA ---- Di recente nel quadro del già complicato scenario del
conflitto siriano è esplosa la questione curda, con violenza e foriera di complicazioni
notevoli per tutti i soggetti del Vicino e Medio Oriente che ne temono i contraccolpi. Le
loro preoccupazioni sono aggravate dal palese e massiccio appoggio ai Curdi di Siria da
parte degli Stati Uniti, direttamente presenti sul terreno a prescindere dal non esservi
stati chiamati da quello che - piaccia o no - in base al diritto internazionale è il
legittimo governo della Siria (simpatie e antipatie rimangono extragiuridiche) e con cui
mantengono regolari rapporti paesi non di secondo piano come l'India e la Cina. I soggetti
in questione sono notoriamente Siria, Turchia, Iran e Iraq.
Emersa con la fine della Grande Guerra, la questione curda è rimasta irrisolta non tanto
per la cattiveria e l'ottusità dei governanti di quei paesi - che tuttavia ci sono state e
l'hanno aggravata - quanto e soprattutto a causa di due fattori geopolitici: la
frammentazione del Kurdistan geografico all'interno delle entità statali costituite da
Gran Bretagna e Francia per i rispettivi interessi imperialistici (il caso della Turchia
kemalista è del tutto a parte); nonché i fragilissimi "equilibri" interni di tali nuovi
Stati (dalle frontiere palesemente tracciate col righello sulla carta geografica) sotto i
profili etnico, religioso e sociale; di modo che i loro poteri centrali hanno visto un
concreto pericolo di disintegrazione nella pur minima concessione di autonomia alle
minoranze curde.
In linea generale della questione curda per decenni e decenni non è importato molto alle
potenze esterne all'area, mentre in essa gli Stati spesso e volentieri hanno cinicamente e
in vario modo appoggiato i Curdi altrui mentre reprimevano quelli di casa propria.
Mancando appoggi internazionali, è mancata altresì la strumentalizzazione esterna del
problema, naturalmente a scapito ulteriore dei Curdi: non si dimentichi il male derivato
agli Armeni alla fine dell'Impero ottomano a causa delle istigazioni esterne in senso
nazionalistico senza proposizione di soluzioni concrete e possibili, ma sostenute da
reiterate e mai mantenute promesse di aiuto e difesa.
LE PREMESSE
Esistendo l'Impero ottomano, era assente una «questione curda», al pari del nazionalismo
arabo, limitato a ristrettissime élite senza radici popolari: il mito di Lawrence d'Arabia
- sicuramente ben costruito sul piano mediatico - è del tutto fuorviante, tant'è che quel
personaggio mobilitò (a pagamento) solo qualche migliaio di beduini del deserto fra le
attuali Giordania e Arabia Saudita. Le cose invece cambiarono per tutti a seguito del
crollo di quell'Impero.
Le grandi potenze europee vincitrici della Grande Guerra si limitarono a prospettare la
nascita di un Kurdistan indipendente (destinato a finire sotto l'influenza britannica) nel
Trattato di Sèvres (10 agosto 1920): i confini di questo Stato li avrebbe dovuti tracciare
definitivamente un'apposita commissione della Società delle Nazioni. Quel Trattato nasceva
però nella fase immediatamente postbellica, caratterizzata dall'illusione dei vincitori di
poter estendere all'Anatolia la disintegrazione dei vecchi domini ottomani; illusione
fatta presto naufragare dalla vittoriosa guerra d'indipendenza turca guidata da Mustafa
Kemal. In conclusione, il successivo Trattato di Losanna (1923), firmato dagli Alleati e
dal rappresentante di Kemal sulle ceneri di quello di Sèvres, non fece più menzione di un
Kurdistan indipendente. A far "digerire" questo assetto giuridico ai nazionalisti curdi
d'Anatolia ci pensò la repressione dell'esercito kemalista.
Ormai i Curdi erano essenzialmente suddivisi fra Turchia, Siria e Iraq. Ovviamente per
ragioni di spazio dobbiamo fare dei salti storici, per cui diciamo solo - per quanto
riguarda i Curdi di quest'ultimo paese - che una lunga e aspra lotta ha consentito loro di
ritagliarsi un Kurdistan autonomo, poi federato all'interno della Repubblica irachena solo
grazie alle contingenze belliche culminate nella caduta del regime di Saddam Husayn. Nel
Kurdistan iracheno a dominare oggi è il Partito Democratico del Kurdistan (in curdo Parti
Dimukrati Kurdistan), fondato nel 1946 dal leggendario "Mullah rosso" Mustafa Barzani -
guidato oggi dall'attuale Presidente di quella entità, Mas'ud Barzani - insieme all'ex
nemica Upk, ovvero Unione Patriottica del Kurdistan (Eketî Nistîmanî Kurdistan) di Jalal
Talabani, a sua volta diventato Presidente dell'Iraq dopo la caduta del regime baathista.
Per quanto riguarda la Turchia è nota la persistente guerriglia che dal 1984 conduce il
Partito dei Lavoratori del Kurdistan (in curdo Partîya Karkerén Kurdîstan, Pkk; in turco
Kürdistan Isçi Partisi).
Dal punto di vista politico, fra la repressione irachena e quella turca esiste una
differenza ideologica non lieve: in Iraq si è repressa un minoranza che era vista come
tale, mentre in Turchia è stata addirittura negata ai Curdi la loro diversità etnica,
linguistica e culturale in genere rispetto ai Turchi (per non complicare la vita, lasciamo
stare cosa si debba intendere oggi per "turco") mediante il comodo (e fallace) termine di
"Turchi della montagna".
I CURDI DI SIRIA CON ANKARA CHE NON STA A GUARDARE
In Siria il precipitare della crisi bellica ha propiziato tra i Curdi locali un'evoluzione
del Partito dell'Unione Democratica, o Pyd (Partiya Yekîtiya Demokrat, in arabo Hizb
al-Ittihad al-Dimuqratiy), nel senso di portare nel 2004 alla creazione di una forza
paramilitare denominata Unità di Protezione Popolare (Yekîneyên Parastina Gel, Ypg) col
compito originario di proteggere dai jihadisti le zone siriane a concentrazione curda
(circa 600.000 abitanti). Dal 2014 l'Ypg ha dovuto fronteggiare l'espansione dell'Isis,
ricevendo massicci rifornimenti statunitensi e conseguendo vari successi sul campo, a
cominciare dalla difesa di Kobane.
Inizialmente il governo di Damasco, per quanto senza soverchia simpatia, non l'ha
osteggiato, ma di recente la situazione si è capovolta e gli attuali scontri armati con
l'Ypg nelle città di Hasakah e Qamishly - aiutati anche con chiare minacce all'Esercito
Arabo Siriano da parte degli Stati Uniti - attestano che ormai si è aperto un nuovo fronte
bellico fra truppe regolari siriane e Ypg. Un fronte estremamente pericoloso, in cui la
Russia dovrà svolgere un improbo compito di contenimento per evitare che si arrivi a
combattimenti coinvolgenti truppe statunitensi (che in Siria non dovrebbero esserci) e da
cui solo l'Isis trarrebbe vantaggio.
È palese che, dopo i fallimentari esperimenti del cosiddetto Esercito Libero Siriano e dei
ribelli musulmani "moderati", ovunque battuti da an-Nusra e dall'Isis (famoso il
fallimento della Division 30 formata da turkmeni "moderati" addestrati dagli Usa e costati
500 milioni di dollari, letteralmente sbaragliata da an-Nusra appena arrivata in Siria),
gli Stati Uniti abbiano individuato nei Curdi dell'Ypg uno strumento militarmente assai
più valido al fine di creare basi più solide per la futura disgregazione della Siria. Da
qui la presenza di militari statunitensi con divise curde, le cui foto sono comparse anche
nella stampa italiana, e da qui i combattimenti ad Hasakah e Qamishly contro le truppe
siriane.
Non a caso quelli dell'Ypg parlano apertamente di una Rojavayê Kurdistanê, o più
semplicemente Rojava, cioè di una regione autonoma curda nel nord e nordest della Siria,
per la quale a novembre del 2013 il Pyd aveva già annunciato la creazione di un governo
interinale riguardante i tre "cantoni" di Afrin, Jazira e Kobane. Le manovre statunitensi
con l'Ypg non potevano lasciare indifferente la Turchia; e infatti - oltre a quello
curdo-siriano - si è aperto un fronte curdo-turco. Ricordiamo per inciso che per Ankara
l'Ypg è semplicemente una filiale del Pkk; a complicare il quadro c'è che il partito curdo
iracheno di Barzani è nemico tanto del Pkk quanto dell'Ypg.
Alle 4 del mattino del 24 agosto l'esercito turco ha avviato nel nord della Siria
l'operazione "Scudo dell'Eufrate" al fine di eliminare le minacce dell'Isis ma soprattutto
delle forze curde siriane, come ha dichiarato lo stesso Recep Tayyip Erdogan, aggiungendo
- tanto per esser chiari - che nessuno può pensare alla situazione siriana come
indipendente dagli affari interni della Turchia. L'obiettivo è la città di Jarablus, e
consisterebbe nel farvi entrare, prima dell'Ypg, elementi dell'Esercito Libero Siriano. Ma
come se non bastasse, l'Agenzia Reuters ha raccolto la dichiarazione di un alto
funzionario statunitense, il quale ha annunciato copertura aerea degli Stati Uniti alla
Turchia durante l'operazione militare contro i terroristi dell'Isis a Jarablus! Qui la
logica formale serve a poco.
D'altro canto - poiché l'Ypg fa parte della coalizione di Obama a cui partecipa (a parole)
anche la Turchia - l'operazione "Scudo dell'Eufrate" verrebbe ad essere una specie di
conflitto fra presunti coalizzati. Ma non già un'anomalia nelle politiche del Vicino
Oriente, in cui i cambi di fronte non avvengono necessariamente in successione
cronologica, bensì possono essere in contemporanea: vale a dire, l'alleanza di A, B e C
contro D non esclude che a un certo punto alla comune lotta si aggiunga un conflitto tra A
e C.
Certo è che la politica estera turca è oggi del tutto inaffidabile perché volatile, ed
essendo decisa da un unico soggetto (Erdogan) c'è da chiedersi se sappia cosa voglia e
come ci voglia arrivare. Per Erdogan l'asse Stati Uniti-Ypg è di estrema pericolosità e
farà di tutto per ostacolarlo; questo l'ha portato a esternare la sua contrarietà a un
assetto postbellico della Siria secondo linee etnico-confessionali, facendo pensare a
taluni osservatori che ad Ankara adesso potrebbe anche andare bene la permanenza al potere
di al-Assad e del Baath, cosa non del tutto sicura. Al momento i rapporti della Turchia
col Kurdistan iracheno sembrano "normalizzati", e innegabilmente questa regione si è
giovata assai degli investimenti economici turchi e di un certo appoggio politico; d'altra
parte l'inimicizia di Barzani verso il Pkk è ancora una garanzia perdurante. Inoltre - e
non da ultimo - l'esportazione di gas naturale e petrolio dal Kurdistan iracheno deve
passare attraverso la Turchia. Proprio l'appoggio al - e del - governo curdo di Erbil
appare essere una carta positiva per Erdogan, a patto che riesca a evitare intese fra
Curdi iracheni e Curdi di Siria e Turchia. È certo una scommessa, tenuto conto di quanto
si dirà fra poco. Ma il vero problema di Ankara non è fuori dalle frontiere, poiché solo
se riuscisse a realizzare un qualche grado di normalizzazione con i propri Curdi, così da
ridurre di molto la presa del Pkk, potrebbe evitare che la carta curda sia giocabile dai
propri nemici o alleati di dubbia lealtà.
INTANTO NEL KURDISTAN IRACHENO...
Non è chiaro cosa potrebbe derivare dal referendum (originariamente preannunciato per il
2014) che si dovrebbe presumibilmente tenere fra settembre e ottobre nel Kurdistan
iracheno, qualora vincessero gli indipendentisti. Al riguardo la dirigenza di Erbil si è
attestata su una posizione conciliante, avendo preannunciato che in ogni caso la questione
verrebbe discussa col governo di Baghdad per evitare effetti dirompenti. Si può azzardare
a ritenere che - a parità di condizioni - ritrovandosi l'eventuale Stato curdo
mesopotamico stretto fra Iraq e Turchia soprattutto sul piano economico, forse la
situazione non muterebbe granché. Ma i giochi restano aperti.
L'iniziativa referendaria - oltre a esprimere le forti differenze ideologiche tra i Curdi
iracheni e i Curdi turchi e siriani, e quindi a mandare per aria i sogni (velleitari) di
un Kurdistan unito - risponde a un grave contenzioso tra Erbil e Baghdad circa la
ripartizione dei proventi da gas e petrolio, tanto che dal 2014 Erbil ha iniziato a
effettuare vendite in autonomia, cioè senza passare per Baghdad. Il mancato trasferimento
di fondi dalla capitale a Erbil avrebbe provocato una grave crisi economica e un deficit
per i Curdi di almeno 406 milioni di dollari (ma l'opposizione curda al partito di Barzani
accusa di nascondere il reale valore delle vendite di greggio e gas, e di fabbricare una
crisi economica solo per reprimere le opposizioni e favorire politiche autoritarie).
Per la popolazione la crisi tuttavia morde. I dipendenti pubblici (oltre un milione e
mezzo, pari al 25% della forza-lavoro) non ricevono il salario da cinque mesi, aumentano i
disoccupati e il 20% del popolo vive sotto la soglia di povertà, giacché anche lì i
proventi delle esportazioni energetiche vanno a favore di un'élite economica che è anche
politica. Recentemente il governo di Baghdad ha promesso di scongelare il trasferimento
congiunto per fronteggiare la crisi, aggravata dal crollo del prezzo del petrolio. Tutto
questo per dire che anche il Kurdistan iracheno è meno stabile di quanto potesse apparire
e che un suo eventuale collasso costituirebbe una catastrofe nella catastrofe, con Raqqa e
Mosul ancora nelle mani dell'Isis.
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